MILANO – Quel che Oscar De Summa fa, con “Stasera sono in vena”, è prendere un pezzo della sua stessa storia personale e trasformarla in spettacolo. Lo fa scientemente, chirurgicamente. Mette in campo una strategia drammaturgica ben precisa, soppesando pieni, vuoti, pause, ritmi, eccessi di verbosità concitata e momenti di solennità rallentata, luci che lo investono dall’alto, ora a benedirne la fisicità gaudente ora a mortificarne la sagoma penitente, e poi buio, protratto, quando la parola al tempo stesso basta e fatica ad affiorare. Tutto questo per un one man show, a cui larga fetta del teatro di narrazione ci ha abituati, rivisitato e corretto, qui, con quella modalità autarchica, che è più dei cantastorie o di certi cantautori alla Edoardo Bennato, per citarne uno, attrezzato di tutto punto per poter simultaneamente cantare, suonare la chitarra, l’armonica a bocca e battere il tempo con una mazza di tamburo azionata da un pedale. L’idea che si ha è proprio quella di una rappresentazione itinerante, chissà quante volte replicata prima – chissà in quali altre piazze. Una sorta di testimonianza, sì, ma che, come le storie dei pupi o certi misteri medioevali, prima di scodellarci la sua morale, provi, intanto, a farci ridere, piangere e cascarci con tutte le scarpe nella pancia emotiva di quel che ci viene detto. Così, sedia strategica a centro palco – o, forse, appena un po’ più in qua, a propiziare il contatto con la platea -, un campanello a portata di piede e un microfono ad asta, sono tutto e solo l’armamentario, di cui si attrezza De Summa, oltre al bagaglio esplosivo che è la sua storia.
E se il teatro ci ha abituati a trovare gli artisti già in scena, invece qui, e proprio come a un concerto, il solista entra e accenna a un inchino. Si siede e parte una base musicale arrabbiatissima sulla quale canta, per qualche minuto. Di pancia, di cuore e con le ingenuità, in cui incappa chiunque di noi, quando si lancia, da solo, a casa propria, nei più vorticosi gorgheggi hard rock per il solo gusto di sentirsi una cosa sola con la musica a palla. Senza temere l’impietoso giudizio di un pubblico, che nella sua testa non c’è, strilla, impenna in sonorità acute per poi planare nei bassi delle corde più lente del blues. Ecco, esattamente poi questo è quel che replica nella partitura dell’intero spettacolo. E ci vuole mestiere per farlo e Oscar De Summa non gli manca di certo.
Intanto quel cantare sgolato lo riporta – e ci riporta – in tempo zero ai suoi sedici anni, all’ozioso giorno di calura estiva, in cui, per un bislacco gioco del destino, quel campanello al piede con cui istrionicamente duetta, gli fece irrompere in casa Sandra, “un angelo venuto a salvarmi”, svelerà più avanti, a dispetto di come poi saranno andate le cose. E mentre rievoca gli eventi, con un linguaggio e una mimica, che ce lo rendono immediatamente simpatico e credibile, moltiplicandolo, istrionicamente, nei tic e negli sleng comportamentali della sua compagnia non propriamente dei celestini, lentamente si dipana la storia. E’ il racconto della sua adolescenza bruciata in un fazzoletto di provincia, in cui il nulla sarebbe già stato qualcosa. E’ la narrazione della noia e della vanità, che quando si prendono a braccetto possono sconfinare in quella terra di nessuno, in cui è facilissimo inoltrarsi, ma spesso senza biglietto di ritorno.
E’ lo spaccato, in controluce, di una terra brindisina che, da luogo di carcerazione di esponenti di mafia e ‘ndrangheta, si ricicla nel sogno edulcorato di soldi facili da fare. E’ illusione di una felicità chimica, che all’inizio sembra gestibile e a portata di mano. Ma poi si sa, i sogni muoiono all’alba. Così, Pinocchio docet, all’abbuffata segue lo scotto e questi ex bambini o poco più, benché non si risveglino con orecchie e coda da asini, tali sono. Sono bestie, che se ancora per un poco continuano a ragliare il loro divertito adolescenziale mood, cominciano a sentirsi vacillare la terra sotto i piedi, pur nell’ostentata sicurezza. Cambia il registro narrativo: non più il mitragliamento sovreccitato del tossico in fase up, ma un parlare più raggelato, misurato, guardingo, pur nell’esaltazione dell’incredulità. Cambia il gioco delle luci, cambiano il ritmo e le colonne sonore d’accompagnamento. Sale il fumo, a tratti, sul palco e con esso sale l’angoscia di fronte all’abbrutimento a cui la dipendenza li costringe. Fino alle estreme conseguenze. Fino a un soffio dal baratro.
Il finale, grandioso, riapre alla speranza, mentre ci culla con l’ “”Hallelujah” di Cohen e, con quello, non si può sbagliare.
Uscendo si prova la duplice sensazione di aver visto uno spettacolo smontabile, per certi versi, nel suo scheletro e di cui lucidamente se ne potevano indovinare gli incastri, le dinamiche e facilmente prevederne gli esiti. Eppure un lavoro che, nonostante questo, di certo nulla toglie all’emozione, alla vivacità e alla maestria, merito anche di un interprete mattatore, generoso e convincente.
Visto a Milano, Teatro Atir Ringhiera, nell’ultima replica di domenica, 31 gennaio.