Teatro, Teatrorecensione — 28/04/2012 at 06:38

Don Giovanni al tempo dei festini a luci rosse

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È un Don Giovanni scolorito quello andato in scena al Teatro Testoni di Casalecchio. Dell’amante glorioso, del tombeur de femme, del seduttore irresistibile non resta, nella rilettura del mito molièriano di Antonio Latella, che una traccia leggera, un’ombra di cui è impossibile rintracciare la fonte in carne e ossa. Nel suo Don Giovanni a cenar teco, una figura di crudele e affascinante seduttore modellata su misura dalle donne della commedia per un giovane sfaccendato che crolla sotto il peso delle sue stesse membra appisolate, che spreca le parole gettandole via come il peggiore dei declamatori, che si lascia scivolare addosso la sua stessa storia. Come un attore cui sia stata forzatamente appiccicata la maschera pirandelliana di un personaggio che non gli appartiene. Ecco quindi che il parlare vellutato che gli attribuiscono le figure femminili non è altro che il riflesso della loro personale idea di Don Giovanni. Latella mescola le carte e decentra l’asse della visione affidando la costruzione della figura di Don Giovanni a chi osserva. Lo spettatore non vede Don Giovanni, ma una sua ideale proiezione creata dalle donne sulla scorta del ruolo che egli rappresenta.

Tutto lo spettacolo, in fondo, è una sfilata di ruoli esibiti in quanto tali, scoperti nella loro finzione scenica. E ne sono testimoni i costumi seicenteschi spesso tenuti aperti su abiti contemporanei, indossati all’occorrenza, proprio come le parrucche. O la scena in cui, sfondata prima a parole e poi nei fatti la quarta parete, gli uomini scendono in platea improvvisando tra il pubblico. Latella sfida il pubblico, gli sottrae la certezza di ciò che sta osservando oscillando di continuo tra interpretazione veristica e aperta denuncia della finzione. Ponendo gli spettatori in una posizione scomoda, accendendo più volte le luci in sala, e scendendo addirittura in platea, il regista tenta di risvegliarli dal torpore teatrale. “Qui sono morti tutti” dice a un certo punto Don Giovanni, riferendosi appunto agli spettatori.

Ecco dunque che la celebre, riconoscibile e rassicurante storia di Don Giovanni, del giovane seduttore di fanciulle indifese, si trasforma in un rituale orgiastico sui generis, in cui la dimora rurale dei contadini che accolgono il nobile signore diviene un bordello che ospita un festino a luci rosse sulle note di “A far l’amore comincia tu” di Raffaella Carrà, in cui Donna Elvira, esempio di virtù, diviene una prostituta. Il sesso, unico Dio, domina su tutto, sembra suggerire la scena. Con una volgarità esagerata che diviene caricatura (soprattutto in Pierrot, uno splendido Giovanni Franzoni. E cosa poteva diventare il rustico personaggio, se non un transessuale?) Latella fa del Don Giovanni un saggio di sessocrazia. Un predominio della lussuria che sfocia, però, in una punizione finale (inedita rispetto al testo originale) che vede Don Giovanni costretto a passare il resto dei suoi giorni insieme a una sola donna per sfuggire all’incontro fatale con la statua del commendatore che ne avrebbe determinato la fine. Rintocchi di campane a morte scandiscono funeree le tappe del triste risvolto di una vita votata alla sregolatezza e punita secondo la legge del contrappasso.

Esclusi gli spazi comici di Sganarello, cui la drammaturgia regala battute rivestite di contemporaneità, lo spettacolo si rivela estremamente cupo. Complice, forse, lo scarso uso delle luci esterne a favore dell’introduzione di un faro gigante, montato su una sedia a rotelle che inquadra ridotti spazi con intensità luminosa abnorme determinando ampie zone di ombra completa. Complice anche il palcoscenico spoglio, che ricalca la nudità dei personaggi, in cui l’unico elemento scenografico è dato dal runner di un arazzo giallo oro che suggerisce, svelandone l’arbitrarietà, le unità di luogo e tempo in cui si svolge la vicenda.

Due elementi, luce e scena, che Latella usa come veri personaggi; un segui-persona, appunto, che spinto dai personaggi reali abbatte, di nuovo, la quarta parete, puntandosi spesso sul pubblico fino al punto di irritarne la visione, e rivela l’artificio. Un pezzo di arazzo, che sale, scende, si anima, fino al punto di decapitare Charlotte. Un personaggio che rimane così schiacciato da quel telo, residuo e simbolo della storia originale molièriana, sotto il peso di una trama già scritta da cui, con un intenso monologo sulla differenza tra l’amore vero e quello raccontato dalla letteratura, ha cercato di evadere. Da sottolineare la bravura di Caterina Carpio, Candida Nieri, e Valentina Vacca. Tre interpreti di rara energia attorica e presenza fisica, capaci di disegnare ruoli ben definiti e coerenti anche nei dettagli. Basti osservare donna Elvira che, pur da prostituta non scompone mai la sua postura elegante.

Don Giovanni, a cenar teco

da Moliere

produzione Stabile /Mobile Compagnia Antonio Latella

in collaborazione con Teatro Stabile di Napoli, Nuovo Teatro Nuovo

drammaturgia Antonio Latella e Linda Dalisi

regia Antonio Latella

Con Caterina Carpio, Daniele Fior, Giovanni Loizzi, Candida Neri, Maurizio Rippa, Valentina Vacca.

Visto al Teatro Comunale Testoni di Casalecchio il 21 aprile 2012

 

In replica al Teatro della Tosse di Genova dal 26 al 28 aprile e al Teatro Elfo Puccini di Milano dal 2 al 13 maggio

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