Culture — 31/07/2016 at 09:53

Nel castello in cui il pensiero diventa libero

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VOLTERRA (Pisa) – Dentro quelle stanze così anguste nasce il lavoro della Compagnia della Fortezza, perimetri spaziali circoscritti da spesse mura, due file di sedie di legno come si usavano un tempo nei cinema di periferia, scomode quanto utili per restare concentrati. È in questo luogo che si sviluppa il pensiero drammaturgico collettivo guidato da Armando Punzo; fucina dove si plasma la materia incandescente in una sorta di tangibile testimonianza che sveli agli occhi del mondo, quello che Edmond , un attore della Compagnia riassume con una frase esplicativa: “Il quotidiano della nostra vita”. In Ro Ro Ro, “La Città ideale”, edizione speciale VolterraTeatro 2016 , Clicy Edizioni di Firenze, Armando Punzo scrive in “Come se il mondo dovesse cominciare solo ora”: «(…) Sembra che non abbiamo più niente da esplorare, da scoprire, al di fuori del catalogo di azioni e pensieri messo a disposizione dalla loro natura e dalla loro condizione culturale, sociale, ambientale ed epocale».

C’è un mondo interno che pulsa in quelle stanze, dove il tempo viene scandito per molti mesi dell’anno senza che nulla possa turbare l’ordinaria convivenza e le regole stabilite. Eppure dentro in questo microcosmo, avviene una trasformazione dei processi vitali determinati dalla necessità esistenziale di non fermarsi; a maggior ragione per chi sente il desiderio di trasformare la propria vita. «Siamo fermi, abbiamo la sensazione fisica di cadere all’indietro. Non crediamo più che si possa fare qualcosa, che possa esserci una evoluzione. Ed è giusto, perché si è dimostrato tutto falso. Ma tutto ciò che è fallito puntava a risultati immediati. A distanza di qualche secolo, invece, ciò che un tempo costituiva eresia è ai nostri occhi evidente. Io so di essere per molti un eretico, la mia eresia è credere nelle potenzialità trasformatrici dell’uomo. Anche di quelli che sembrano perduti. (…)».

Li dentro in quelle stanze, adibite a luoghi di pensiero che trova il suo respiro di libertà, di meditazione, studio e riflessione, per una settimana tutto accelera e si trasforma in camerini, sala prove, trucco e costumi, laboratori di costruzioni scenografiche; sulle pareti tappezzate di fogli compaiono i nomi di Timone, Iago, Ofelia, Desdemona, Banquo, Cordelia, Calibano, Tito Andronico, Prospero, Amleto, Ariel, Cordelia, disseminati tra tutte le opere di Shakespeare affrontate una per una dagli attori. Centinaia di pagine sfogliate e lette e poi richiuse. Lasciate decantare, filtrare fino a creare un distillato che resta impresso nella memoria. Spiega ancora Edmund, nei ruoli di Re Lear e Riccardo II, un’unica voce composta da due opere diverse: «Tutti noi abbiamo letto le opere con la libertà di scegliere quello che volevamo e ognuno ha potuto esprimere un giudizio sui personaggi. Non a tutti piaceva lo stesso personaggio. Così facendo abbiamo trovato delle caratteristiche di noi stessi ed è accaduto che sono stati i testi, alla fine, a scegliere noi, ad incalzarsi nella mia persona. Sono arrivati verso di noi. C’era una forte resistenza dei testi e il modo di lavorare di Armando Punzo non permette di sostenere il personaggio da interpretare se non accetti che sia il testo a scegliere noi. Lui ha individuato la resistenza che c’è nelle opere di Shakespeare. Tutti i testi sono molto belli e quello che Punzo ha fatto è di fornirci le chiavi che aprissero le porte per permettere a noi di entrare nelle storie. Il suo modo di lavorare ci ha insegnato una tecnica particolare: ognuno leggendo una parola, una frase ci faceva pensare ad un’altra cosa, ad un’immagine della nostra vita vissuta per poi applicarla a noi stessi».

foto di Stefano Vaja
foto di Stefano Vaja

Re Lear+Riccardo II

Si è spezzato in un sorriso

O dolcezza della vita che ci induce

a morire d’ora in ora le pene della morte,

piuttosto che a morire d’un colpo

Copritevi la testa, non irridete a un impasto di carne e sangue

con riverenze solenni, gettate via rispetto,

tradizione, formalità, dovere, etichetta:

in tutto questo tempo voi mi avete frainteso.

Io non sono come voi…

Voi vivete di pane, provate desideri,

assaporate il dolore, avete bisogno di amici. Così asserviti,

come potete venirmi a dire che io sono un re?

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Salvatore nei ruoli di Pericle Principe di Tiro e Riccardo II. «Fin dal principio Punzo ci ha chiesto di non pensare ai testi e che sarebbe arrivato il momento giusto nel farli nostri. Siamo partiti dal lavoro di esercitarci nel modo di respirare e sulla nostra emotività: da qui sono nate tutte le scene. Una fase molto impegnativa durata a lungo e intensiva per permettere di completare l’allestimento. In questo caso è l’attore che si è ritrovato con se stesso per cercarlo e portarlo in scena, questo è accaduto nella maggior parte dei testi che abbiamo scelto. L’emotività che abbiamo sperimentato ci ha messo in condizione di non viverla durante la scena che recitavamo durante lo spettacolo, ma di risentirla dopo. Armando ha impostato il lavoro così su di noi e su stesso.

Tutto quello che è stato trovato in quella stanza (teatro Franco Graziani all’interno della Fortezza, ndr) è servito a tutt’altro. L’essenza di ogni cosa uscendo da quel luogo subiva una trasformazione. Molte scene sono state trovate direttamente nel cortile (il palcoscenico all’aperto dove avviene lo spettacolo, ndr) e la modalità è quella di far nascere e lasciare che si trasformi in qualcos’altro grazie ad un’evoluzione drammaturgica che avveniva di conseguenza».

Riccardo II (Atto IV Scena I)

Tu stai lì a guardarmi, mentre la mia miseria mi tormenta,

mostrando una pietà solo esteriore.

Tu mi hai consegnato alla mia croce amara e l’acqua non può lavare il tuo peccato.

Guarda ora come mi disfo di me stesso.

Mi tolgo questo grave peso dalla testa,

questo scomodo scettro dalla mano

e dal cuore l’orgoglio del potere regale.

Con le mie stesse lacrime lavo la mia unzione,

con le mie stesse mani consegno la mia corona,

con la mia stessa lingua nego il mio sacro stato,

con il mio stesso respiro sciolgo tutti i dovuti giuramenti,

abbandono tutta la mia maestà.

Rinuncio ai miei palazzi, ai profitti, alle rendite,

annullo i miei atti, decreti e statuti.

Io che non ho nulla, da nulla addolorato.

Possa tu vivere a lungo e io possa riposare in un pezzo di terra.

Io non devo essere niente.

Ora è tempo del silenzio. La sospensione del giudizio per depositare i pensieri e le azioni. Le pagine richiuse si riappropriano del loro sapere. Il clamore della voci è sfumato via. Tacere dopo aver vissuto «l’apoteosi di quella utopia della libertà di poter sempre riscrivere tutto, anche quello che sembra impossibile da cambiare e da reinventare.»

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