RUMOR(S)CENA – GENOVA – Yerma è il secondo capitolo datato 1933 della trilogia di Federico Garcia Lorca (tra Bodas de Sangre e La Casa di Bernarda Alba) e ripercorre con lirica visione e anche profetica sofferenza i temi del cosiddetto dramma rurale, che anche in Italia trovava una sua specifica sistemazione nell’opera di Gabriele D’Annunzio, pur nei tratti assai più estetizzanti che caratterizzavano il ‘vate’ di Pescara.
La revisione drammaturgica di Federico Pitto messa in scena dalla compagnia Va.Fi.Bo per la regia di Thaiz Bozano, al termine di una residenza presso il Teatro Akropolis di Genova, appare però, più che un omaggio al grande poeta spagnolo e a quel contesto, piuttosto come un tentativo di ricostruire, rintracciandole e ricreandole dentro quel testo moderno, in cui se ne riconoscevano evidenti le stimmate, le modalità linguistiche, espressive e narrative della tragedia antica, sentita strutturalmente come la Tragedia ‘tout court‘, intesa in questo come specifico sguardo sul mondo e sull’umanità, oltre e prima del tempo della Storia. A partire dalla mescolanza e sovrapposizione scenica di parola, danza e musica che trovano nel corpo la loro piena espressione, liricamente significante ed anche epicamente narrativa, così da ricostruire nella dimensione scenica una persistente dimensione rituale, capace di segnare, come cippi lungo una strada consolare, il percorso dell’esistenza.
Forse proprio per questo la percezione dello spettacolo diventa paradossalmente più efficace e più ‘illuminata’ dopo quel transito scenico, che in effetti nel suo corso si mostra un po’ chiuso e contorto attorno all’enigma che custodisce, quasi avesse questo transito scenico offerto e impiantato nel rapporto con lo spettatore semi destinati a maturare e fruttificare dopo, attraversato il tempo non immediato di quella che gli antichi chiamavano catarsi. Il testo in effetti ben si presta ad una simile operazione per la sua sintassi che affonda nei tratti arcaici della società contadina spagnola chiusa dentro il secolo scorso, e per suoi legami con un mondo che appare metafisicamente determinato nella sua persistenza e che appunto, come detto, transita e scavalca la storia e le esistenze.
Insieme favorendo, poi, un procedimento drammatico che concentra tutta l’organizzazione scenica sul personaggio principale, Yerma (che sta per “terra arida” ma anche per “sterilità” ad indicare il profondo suo valore metaforico) quasi a rappresentare drammaturgicamente la profondità in cui la molteplicità delle esistenze si risolve nella unicità dei loro significati. Ma anche per gli aspetti narrativi in cui l’elemento della maternità, o meglio della maternità negata o impossibile, con le ricadute di rituali pagani e senza tempo, ripropone anche una contrapposizione tra fecondità e sterilità, tra creatività femminile e secchezza maschile, che è contrapposizione non solo tra matriarcato delle origini e patriarcato dominante, ma anche tra economia (o Capitale) come surrogato e vitalità feconda.
In fondo è la storia di un desiderio che non si realizza perchè manca la passione che lo alimenta, una passione che Yerma cerca, appunto, di surrogare in ossessioni dolorose e rituali dai tratti inconoscibili. Fino alla fusione dionisica che, in uno dei passaggi più efficaci di questa messa in scena, determina nella immagine della partecipazione e sovrapposizione, non solo figurativa, tra maschile e femminile una auto-generazione mitica e metastorica che sta nel nostro passato, ma anche nell’orizzonte di un nostro possibile futuro.
Consegue a tutto questo che l’aspetto performativo e i movimenti coreografici e musicali appaiono prevalenti per efficacia significativa, risultandone l’impianto drammaturgico in un certo senso tributario nel cercare di rintracciare appieno il fuoco che scorre in quella sorta di intimo vulcano che scivola sotto il racconto. Lo stesso può dirsi della protagonista assai espressiva e significante nella parte performativa e coreutica quasi che, anche consapevolmente, la messa in scena volesse sottolineare, nella tradizione dionisiaca che la ispira, la inevitabile dipendenza e sottomissione della parola, del logos, rispetto alla carne e al sangue che attraverso il corpo dell’attore deve darle una più profonda e condivisa significazione.
Uno spettacolo comunque di buon interesse, nella linea della ricerca, che Akropolis porta avanti con la sua Compagnia e promuove attraverso le residenze, di una forma più attuale di teatro ‘totale’ che ha le sue basi in un recupero degli elementi dionisiaci che l’hanno promosso e comunque, anche se non riconosciuti, lo alimentano. Ultimo della stagione di Teatro Akropolis, in prima assoluta al teatro Akropolis di Genova Sestri Ponente il 26 e 27 maggio. Applaudito.
YERMA. Regia: Thaiz Bozano. Drammaturgia: Federico Pitto. Con: Francesca Santamaria Amato. Scena e costumi: Anna Varaldo. Partiture fisiche: Claudia Monti. Musiche: La Furnasetta. Compagnia VaPiBò.