“Mercuzio non vuole morire – La vera tragedia in Romeo e Giulietta”. Il viaggio di Mercuzio verso la città ideale

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Un lungo requiem di morte intervallato da finestre di meravigliosa clownerie. Un canto funebre struggente, un velo nero che si dirada, a tratti, per rivelare attimi di bellezza indicibile.  Piccoli cadeaux poetici e frizzanti siparietti tra clown posti come fessure nella città reale attraverso cui osservare la città ideale, come esempi di ciò che potrebbe essere e che invece non è.  Un gioco delicato tra il dentro e il fuori, tra la pesantezza della città reale  abitata da uomini di pietra e la leggerezza  della città ideale che accoglie personaggi fantastici e colorati. Una lotta ostinata a colpi di poesia contro il sentirsi sempre, irrimediabilmente, fuori dal fuori, intrappolati all’interno di una bottiglia di vetro  invalicabile. È l’urlo disperato dell’ ultimo poeta cui fa eco la voce di tutti gli altri personaggi.  “Non voglio morire”,  gridano verso il cielo gli attori detenuti, e finalmente Mercuzio rinasce, in virtù di tanta umana speranza, nel cuore di tutti i presenti.

foto: Stefano Vaja

Lo spettacolo della Compagnia della Fortezza di Armando Punzo, Mercuzio non vuole morire-la vera tragedia in Romeo e Giulietta racconta, per immagini e versi, la rivolta dei sogni, la ribellione del Mercuzio di Romeo e Giulietta al padre Shakespeare.  “Noi non serviamo una storia” recita una delle scritte disseminate nel cortile del carcere di Volterra dove si svolge lo spettacolo. Una pièce che costituisce solo una parte del progetto ideato da Armando Punzo,  Mercuzio non vuole morire, un prezioso bozzetto,  punto di partenza  della rappresentazione collettiva, vera punta di diamante del Festival VolterraTeatro 2012, che si materializza, dopo lo spettacolo in carcere, sul palcoscenico naturale del centro storico della città etrusca.

Partendo da una lettura insolita del capolavoro shakespeariano Punzo capovolge la storia originale e immagina un destino diverso per il poeta Mercuzio. Strappato, nella visionaria mente del regista campano,  al destino di morte cui era stato relegato, Mercuzio si fa alfiere della leggerezza, Caronte di un mondo nuovo in cui quei sogni “figli di un cervello pigro, da nulla generati se non dalla vana fantasia” divengono possibilità concrete.

Ad aprire lo spettacolo il serrato duello tra Armando Punzo nei panni di Mercuzio e Tebaldo, un impeccabile Aniello Arena, reduce dal successo di Cannes per il film “Reality”,  che sfodera un’ aggressività avvincente, alternando all’azione una parola allenata e fragrante, rimpolpata dal corposo accento napoletano.
La scena si trasforma ora in un cimitero per Giuliette morte, ora nel bosco incantato della regina Mab. Adagiati al suolo, fasci di rose rosse e un drappo di seta porpora che ospita una preziosa macchina da scrivere, l’ arma del poeta, l’ affilato fioretto di Mercuzio.
Inflazione  di bianco rosso e nero per uno spazio invaso a turno da pesci colorati, uno struzzo rosso, un sole, una luna e per una sfilata di costumi che sfoggiano un cromatismo  intenso a metà tra il barocco e il pop.

L’ intero spettacolo è un susseguirsi di pannelli che danzano, scivolano, avanzano e piroettano al ritmo di sbordanti versi poetici riversati sul pubblico. Gigantografie di quadri cubisti e di celebri opere moderne si alternano a immagini di bambini in bianco e nero.  Quadri viventi si succedono e si intrecciano, scanditi dagli adagi e dagli allegri composti ed eseguiti dal vivo dal pianista alato Andrea  Salvadori

Punzo mette a punto un’ altalena di registri da capogiro.

Un corteo di spettatori che sollevano mani insanguinate, mani di adulti colpevoli della morte dei figli, Giuliette morte prelevate dalla platea, duelli semiseri con gli spettatori,  personaggi circensi che sbrodolano parole di Majakovski e di Pessoa, intermezzi ludici, un letto giallo che rotola in giro per la scena abitato da un Punzo-Mercuzio vestito da direttore di circo in frack da lunghe code nere.
Sfuggenti pagine di libro gigante rincorse con la voce nel disperato tentativo di rubare versi da regalare al pubblico. Inquietante voce di bambini che sussurrano parole da adulti.

foto di Stefano Vaja

DI grande impatto la scena in cui una serie di quinte, su cui sono incollate gigantografie in bianco e nero della piazza di Volterra, si compattano e diventano immagine della pietrosa città, della Bella Verona di Romeo e Giulietta, del mortale luogo in cui si compie la tragedia dei due giovani. Una lady Macbeth in bianco accarezza i pannelli-città con mani insanguinate, come oscuro messaggero di morte prima che la città si animi per avanzare, minacciosa e claustrofobica, verso il pubblico, sul doloroso canto di Maurizio Rippa che intona “When  I am laid in earth” di Henry Purcell.
“Mentre loro si disputano i nostri migliori figli muoiono” recita uno degli striscioni bianchi. La città crolla sulla sua gente,  lascia sotto le macerie i suoi giovani mentre osserva colpevolmente inerme gli adulti che si fanno la guerra.

Nei panni del poeta shakespeariano un magistrale Armando Punzo: un Mercuzio umano, negli inciampi fatali, nelle membra stanche che cercano riparo e sostegno dalle fredde pietre della Bella Verona.
Lo  sguardo di Punzo incontra quello degli spettatori di continuo, lo cerca, se ne nutre. E quando si schiude in sorrisi struggenti, tutto il volto sorride indifeso, inerme e coraggioso, come quello di un fanciullo angelico. Geniale, date le premesse, l’ idea dello specchio attraverso il quale, il regista, di spalle al pubblico, scorrendo tutta la lunghezza della scena, osserva uno per uno tutti gli spettatori incrociandone lo sguardo complice. Punzo regala al suo personaggio una voce già sentita nell’ Hamlice, di una tenerezza sensuale, penetrante, ferocemente avvolgente . Un timbro che scuote e pacifica i sensi allo stesso tempo. Un tono che insistendo su ogni singola parola, disegna un incedere duro, crescente, ridondante, che inevitabilmente interpella l’emozione dei presenti.

“Dormite, ma come fate a dormire? Guardate, hanno di nuovo decapitato le stelle”. Nel finale, mentre gli spettatori alzano al cielo centinaia di  libri, Armando Punzo scaglia contro il vento parole terribili con un ritmo incalzante che si sposa sapiente alla gioiosa partitura sonora fondata, anch’ essa, su un procedimento ripetitivo e crescente. Qualcuno si commuove. In tanti, la sensazione di aver preso parte a una situazione che va bel al di là del teatro, a un momento che finirà negli archivi più preziosi della storia del teatro.

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