Recensioni — 28/02/2017 at 12:55

“Five Easy Pieces”: un teatro al servizio della Verità, Milo Rau visto al Met di Prato

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PRATO  – In una nazione come quella italiana, attraversata da conflitti sociali esasperati da una spinta regressiva, capace di condannare aprioristicamente ogni forma di pensiero e di divulgazione culturale, artistica, sociale, se non conforme ad un giudizio sommario e privo spesso di fondamenti scientifici; dove la censura preventiva appare come un metodo per sottrarsi al confronto democratico di idee diverse e opinioni discordanti ma egualmente legittime (se supportate da evidenze e non pregiudizi), il Teatro sembra destinato ad assumersi una responsabilità altrui dismessa e rifiutata. Conseguenza di una degenerazione dove la scomparsa del dialogo, la conoscenza, il sapere prima del giudicare, sono caratteristiche di una civiltà in lento e pare inarrestabile declino. Un Teatro coraggioso nell’affrontare temi etici – sensibili, responsabili di suscitare profonde riflessioni; un compito se vogliamo primario per una crescita culturale, dove il contraddittorio è una condizione da difendere, sempre che sia gestito con intelligenza e moderazione. Quello che non accade mai in televisione se non in casi rari: trasmissioni basate sullo scontro dialogico e verbale, programmi basati sull’aggressività come unico modo di imporre le proprie idee; scelte editoriali di palinsesti in cui la pornografia è quella rappresentata dalla volgarità, dell’esibizionismo dei partecipanti, degli ospiti in studio, senza che nessuno si scandalizzi o chieda di evitare quello che al giorno d’oggi viene definito come televisione “trash”.

 

A teatro chi sceglie di rappresentare argomenti di attualità, desunti dalla realtà e da vicende anche dolorose, rischia in prima persona come giusto che sia. Il pubblico è il suo referente e quello che può e deve determinare il successo o meno dell’esito artistico dello spettacolo prodotto. La critica può essere d’accordo o meno, suscettibile di giudizi diversificati, contrastanti, elogianti o negativi, opinabili se vogliamo, ma resta prioritario quanto un autore, regista e teatro produttore e/o ospitante, riesca a suscitare emozioni e interrogativi nel pensiero dello spettatore. Così come è accaduto per uno degli spettacoli più incisivi mai visti prima in Italia negli ultimi anni: “Five Easy Pieces” di Milo Rau, giornalista e autore di inchieste anche a carattere politico, oltre che essere scrittore e saggista, regista teatrale e cinematografico. La scelta di rappresentare una delle vicende più tragiche della cronaca nera internazionale, non è stata semplice per le conseguenze che poteva suscitare sull’opinione pubblica. Un nome sinistro: Marc Dutroux, chiamato anche il “Mostro di Marcinelle”, un uomo capace di crudeltà tali da commettere non solo abusi sessuali su minorenni ma anche responsabile di aver assassinato quattro innocenti vite. Vicenda che fu vissuta ovunque come una tragedia collettiva.

 

 

foto di philedeprez

Milo Rau è svizzero e con la sua professionalità di investigatore giornalistico e documentarista, tra i più qualificati, ha saputo trarne una versione teatrale rispettosa che impedisse ogni forma di morbosità e rischio di spettacolizzare una storia mai dimenticata per le vittime e i loro famigliari. Universale purtroppo: i casi di pedofilia e abuso sessuale su minori accadono ogni giorno e l’Italia è tra i paesi più colpiti. Le cronache quotidiane ci costringono a interrogarci, dentro la società civile e anche in ambiti in cui la vita stessa dovrebbe essere rispettata come bene supremo. Come quella della Chiesa. Ora il tema portante di questa disamina, sta all’aspetto artistico realizzato tramite dispositivi registici e scenici, nell’affrontare sul palcoscenico, la ricostruzione dei fatti avvenuti. I protagonisti sono dei giovanissimi attori: per la prima volta Milo Rau sceglie di dirigere dei bambini tra gli otto e i tredici anni, scelti per impersonificare i protagonisti della storia, sia minori che adulti. Idea contestata anche da chi – non avendo visto prima Five Easy Pieces – si è permesso di “gridare” allo scandalo, per l’utilizzo di minorenni che potevano essere “usati” a fini deontologicamente scorretti e  rischiare di indurre, in loro, un disagio e una compromissione della loro crescita evolutiva.

Paure infondate per aver assistito di persona, non solo al gradimento del pubblico presente al Teatro Metastasio di Prato, dove oltre a Roma, lo spettacolo è andato in scena, viste le reazioni positive (può avere un significato ben preciso, reagire alzandosi in piedi per applaudire gli ottimi giovani attori e un adulto, chiamati al proscenio?: secondo il nostro parere sì), al termine della rappresentazione. Reazione emotive che richiamavano al senso etico di far conoscere quanto accaduto, se pur con gli strumenti messi a disposizione di un teatro che usa la rappresentazione artistica, mediatrice per eccellenza delle tragedie umane. Come quelle scritte da drammaturghi dell’antica Grecia, tanto per fare un esempio.

 

foto di Phile Deprez

Milo Rau è un contemporaneo che ha desunto dalla realtà, la possibilità di raccontare anche altro: il senso di giustizia e legalità, la salvaguardia di una coscienza individuale e di una nazione stessa (quella belga in questo caso), non esente da responsabilità morali, fatta di omissioni e di negazioni, dove chi sapeva ha taciuto per troppo, interminabile tempo. Responsabilità politiche e legali delle istituzioni che erano chiamate ad investigare, indagare, e impedire la mostruosità del pedofilo. Un regista giornalista che fa allora per descrivere un materia così incandescente? Chiede ai piccoli attori di partecipare a delle audizioni di ben cinque set in diretta video (la recitazione teatrale viene proiettata sullo schermo in tempo reale), dove i protagonisti inizialmente rispondono a delle domande del regista (l’attore chiamato a questo ruolo), che si rivolge loro facendoli spiegare cosa vorrebbero essere una volta diventati adulti, il senso di essere bambini rispetto al desiderio di diventare anche attori, fino a far dire loro un parere sulla scelta artistica di cosa interpretare (ruoli) e la possibilità di rispondere sull’oggetto drammaturgico in questione. Attori preparati in precedenza da un’equipe, non solo teatrale ma anche pedagogica e specialisti del settore educativo – formativo, psicologico; la rappresentazione nella rappresentazione che da teatrale diventa videoregistrata, quando viene spiegato di riprodurre la scena proiettata sullo schermo recitata da altri attori adulti (poliziotti, giudici, parenti delle vittime, il re belga e i politici, il padre stesso di Marc Dutroux). Teatro e set cinematografico si fondono insieme, scelta che si può definire come un “Campo-Controcampo” ovvero la tecnica utilizzata durante il montaggio di un film, suddivisa in due diverse inquadrature speculari.

 

Chi conosce il linguaggio cinematografico sa cosa significa e Milo Rau ne è esperto. Una scelta estetica ma soprattutto registica di assoluto valore e comprensione, per aver condotto con mano felice un racconto che si bilancia perfettamente tra finzione e richiamo alla triste e angosciante realtà dei fatti. Un Belgio sconvolto, ferito, incredulo eppur testimone quanto vittima e colpevole allo stesso tempo. Implicazioni di natura politica dove sullo sfondo emergono indizi inquietanti su un coinvolgimento militare che spiegano come l’ex colonia belga nel Congo, diventi un problema quando un fautore dell’indipendenza del suo paese, Patrice Lumumba, morirà in circostanze non tanto misteriose, forse assassinato per aver parlato in pubblico davanti al re belga, e non certo con parole edificanti nei confronti di uno stato che aveva sottomesso il suo popolo. Il padre del mostro pedofilo aveva prestato servizio militare proprio in quella nazione del continente africano; trame che si intrecciano tra di loro fino a creare un reticolato stretto e ingarbugliato ma reso comprensibile dalla messa in scena, con tale semplicità da restare sorpresi per la levità del risultato ottenuto. Tutto viene continuamente sottoposto ad una visione che si presta ad essere rappresentata nella sua finzione per i mezzi messi a disposizione, le scene sono mosse a vista, i ruoli si costruiscono man mano che gli attori si vestono dei costumi scelti per interpretare i personaggi, la riproduzione audiovisiva, le spiegazioni didascaliche, la voce narrante dell’attore-regista (ruolo) che guida le interviste, le azioni della storia ricostruita, sospesa tra un fare teatro di narrazione e inchiesta, senza mai scadere nella facile retorica o ideologia a buon mercato per ricavarne una tesi accusatoria, semplicistica. Il tema della pedofilia è trattato con estrema sensibilità e discrezione e non si presta a nessuna sterile polemica. Il segreto: l’interpretazione stessa dei giovanissimi artisti, la loro disarmante semplicità nell’affrontare un lavoro cosi rischioso se fosse stato affidato ad attori adulti molto più esperti e allenati a recitare. Il bambino qui non è “usato” per fini discutibili, anzi, è lui stesso che diventando protagonista assume verso di sé un senso di responsabilità e coscienza che trasmette al pubblico (per lo meno quello presente alla recita vista al Metastasio) e lo porta ad interrogarsi e a interrogare.

Bambini predisposti sicuramente ad affrontare un esperimento teatrale di cui non si ha memoria  precedente in Italia. Lo scetticismo iniziale che poteva essere alimentato dal non sapere e da un plausibile dubbio, di come poteva essere affrontato l’argomento, da parte di coetanei maschi e femmine (quest’ultime le vittime reali), senza venire meno alla inviolabile protezione del minore che necessita di essere cautelato sempre, anche nel settore artistico; svaniva di conseguenza per la serietà su cui si basa tutto l’impianto drammaturgico e registico. Al contrario di quanto trasmette la televisione attraverso i suoi messaggi subliminali che investono la psiche umana; dovuti alla massiccia mistificazione della realtà, riuscendo spesso anche a superarla. I rischi di “corrompere” l’innocenza infantile, se si può chiamare ancora cosi, in questo caso si possono attribuire all’utilizzo dei media, compresi i social network, l’uso compulsivo dei telefoni cellulari, la mancata educazione e controllo da parte dei genitori, spesso fa il resto. Se il teatro può contribuire ad un ruolo educativo e formativo delle coscienze, delle nuove generazioni (ma anche di quelle adulte), il lavoro di Milo Rau lo fa e supera di gran lunga ogni resistenza e diffidenza. Creatività resa a servizio di una collettività che ha necessità di capire, di approfondire e di studiare. Non di rifiutare e omettere. Etica della morale, salvaguardia della moralità, sono parole abusate e prive di contenuto se non si guarda oltre e non si cerca di comprendere il senso logico delle cose. Lo spettacolo va nella giusta direzione per affermare, che anche a teatro è possibile apprendere i fondamenti di una cultura illuminata e priva di censure, là dove le drammatiche vicende dell’epoca contemporanea, quanto quelle del nostro passato, siano ancora delle ferite aperte.

Lo stile di conduzione registico è raffinato ma nella sua semplicità evoca una raffigurazione degli eventi in stile giornalistico (senza commenti o prese di posizione ideologiche, al contrario di una certa stampa che diffonde spesso le notizie con cieco furore), la mediazione tra gli adulti e i giovanissimi interpreti, è costruita al fine di cautelare i minori dal rischio di enfatizzare e banalizzare un argomento altresì difficile per la sua carica emotiva. Il pensiero mentre assisti alla scena riporta il pensiero non solo alla vicenda accaduta in Belgio ma anche di responsabilità italiana. Un teatro anche politico se vogliamo ma rispettoso della verità. Finale commovente tratto da Che cosa sono le nuvole” di Pier Paolo Pasolini.

 

Visto al Teatro Metastasio di Prato il 24 settembre 2016  – Festival Contemporanea

 

 

Five Easy Pieces

spettacolo in fiammingo con sopratitoli in italiano e in inglese

ideazione, testo e regia Milo Rau
testo e performance Rachel Dedain, Maurice Leerman, Pepijn Loobuyck, Willem Loobuyck, Polly Persyn, Peter Seynaeve, Elle Liza Tayou e Winne Vanacker
in video Sara De Bosschere, Pieter-Jan De Wyngaert, Johan Leysen, Peter Seynaeve, Jan Steen, Ans Van den Eede, Hendrik Van Doorn e Annabelle Van Nieuwenhuyse
drammaturgia Stefan Bläske
assistenete alla regia e performance coach Peter Seynaeve
assistente bambini e assistente di produzione Ted Oonk
ricerca Mirjam Knapp e Dries Douibi
set e costumi Anton Lukas
produzione CAMPO & IIPM
coproduzione Kunstenfestivaldesarts Brussels 2016, Münchner Kammerspiele, La Bâtie – Festival de Genève, Kaserne Basel, Gessnerallee Zürich, Singapore International Festival of Arts (SIFA), SICK! Festival UK, Sophiensaele Berlin & Le phénix scène nationale Valenciennes pôle européen de création

 

Lettura consigliata (intervista al direttore artistico di Contemporanea Edoardo Donatini)

 

“Five Easy Pieces”, Milo Rau: “analisi di un dramma senza sconti”

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