Danza — 27/09/2025 at 09:48

Naraku: ombre e ossessioni nel tempio segreto at The Coronet

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Al The Coronet Theatre di Londra la Dance Company Lasta di Yoshimitsu Kushida mette in scena il desiderio come abisso senza tregua.

RUMOR(S)CENA – LONDRA – La performance è uno spazio mentale dove la visione si intreccia con ciò che lo spettatore porta con : frammenti di vita, pensieri recenti, relazioni irrisolte, e chissà quant’altro. Con noi siedono fantasmi, desideri, paure. Non si va a teatro solo per guardare: si viene guardati, ed è così che lo spettacolo dà ciò che ci riguarda.

A teatro neppure le sue mura sono un luogo neutro.

La mia prima volta al Coronet Theatre di Notting Hill ha reso questa evidenza tangibile, perché entri in un organismo vivo più che in uno spazio concreto. Costruito nel 1898 dall’architetto W. G. R. Sprague come teatro vittoriano, calcato da Sarah Bernhardt ed Ellen Terry, porta ancora l’impronta di quella grandeur passata, che oggi appare un incanto nella fusione di elementi autentici di quando fu costruito e i restauri successivi che hanno preservato la sua anima intatta. Diventato cinema nel 1923, sopravvissuto alle trasformazioni e alle minacce di demolizione, oggi riemerge come spazio multidisciplinare, un teatro che non mostra la sua storia come un museo, ma la lascia trasudare da ogni dettaglio.

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Lungo i corridoi che si biforcano dal foyer con il pavimento a scacchi bianco e nero, sedie di legno anguste ( un’anticipazione di ciò che troverò in sala), velluti rossi scoloriti, tappeti consunti, specchi ovali, porcellane e lampade d’epoca, binocoli teatrali, libri ingialliti, una macchina da scrivere Corona sotto uno specchio triplo (e ovunque ti volti emerge qualcosa) come reliquie che raccontano vite sedimentate. Nel sotterraneo, il bar ti mozza il fiato: un teatro nel teatro, un rifugio segreto avvolto da velluti e tappeti persiani, dove il tempo è rarefatto nei legni scuri, nelle pareti che riflettono la luce calda delle lampade su una costellazione di specchi, ciascuno con la sua cornice sbeccata, come portali verso epoche diverse. Porcellane e fotografie ingiallite convivono con un pianoforte (scordato?), vecchi orologi, libri e oggetti che sembrano raccolti in viaggi lontani. Non è solo il luogo per un drink, per me quella sera diventa un preludio alla scena, un anticamera dell’ inconscio che vedrò di lì a poco rappresentato.

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Poi la sala, splendida e severa, con poltrone strette che comprimono le gambe, che impongono al corpo uno stato di vigilanza, i passi degli altri spettatori che si stanno accomodando­­ ­(che ti costringono ad alzarti e a farti piatto), gli scricchiolii del pavimento: tutto partecipa a una trama invisibile. Al The Coronet il teatro non è cornice, è co-autore, e lo spettatore non può che sentirsi catturato, pressato, avvolto in un rito che comincia molto prima che le luci di scena si abbassino. Arriva Naraku, il cuore pulsante della Dance Company Lasta – fondata a Tokyo nel 2013 e riconosciuta tra le compagnie più audaci della danza contemporanea giapponese – firmato dal coreografo e danzatore Yoshimitsu Kushida. Lo spettacolo, nato a Yokohama nel 2020, è stato poi trasposto in un film premiato e selezionato in festival internazionali (Parigi, Venezia, Atene, Londra). A interpretarlo, un ensemble di danzatori – Satoshi Nakagawa,

interior by David Jensen

Miwa Motojima, Yumika Yasuoka, Mana Tazaki, Riku Ogawa, Aoi Okamoto – guidati dalle musiche avvolgenti di Motoi Matsuda e da costumi che oscillano fra il quotidiano e il visionario, firmati hitoha.nasu e Grelot Arbre Co.. Le luci, curate da Kushida con Ros Chase, incidono lo spazio come lame.

In giapponese, naraku indica il sottopalco: lo spazio invisibile, da cui emergono apparizioni e macchinari. Kushida ne fa metafora psichica: l’abisso interiore da cui salgono i desideri più oscuri, quelli che non si lasciano controllare, quelli che minacciano di spezzare la fragile superficie della coscienza. Il protagonista è un uomo seduto a una scrivania. La stanza è ordinata, borghese: lampade, poltrone, tappeti. Ma basta un attimo perché quell’ordine venga invaso da presenze che lo assediano, corpi che si insinuano, figure che si moltiplicano come pensieri ossessivi. Il quotidiano si sfalda. L’interno domestico diventa teatro dell’inconscio.

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I corpi in scena si contorcono, collidono, si abbattono l’uno sull’altro. Una donna in bianco viene sollevata come una visione angelica, ma subito ricade con violenza. Mani che stringono troppo, bocche spalancate in un urlo muto, schiene curve che inseguono qualcosa che sfugge, corpi che si abbracciano come se volessero salvarsi, e invece si stringono fino a soffocare. È spasmo, frattura, ripetizione. Promette fusione ma produce distanza. I volti deformati dal desiderio, le mani che stringono con troppa forza, i respiri accelerati: ogni gesto tradisce la febbre del possesso, ogni contatto è promessa e ferita, ogni carezza è già strappo. Non c’è dolcezza che non porti in grembo il rischio di farsi ossessione, in urgenza di controllo, in bisogno di trattenere. La gelosia serpeggia nei corpi che si sorvegliano a vicenda, negli sguardi che non concedono tregua. Ogni abbraccio diventa lotta, ogni contatto rischia di farsi ferita. Ciò che arde come attrazione presto brucia come febbre. Non più sete dell’altro, ma paura di perderlo. È così che la coreografia trova la sua potenza: nel mostrare il confine labile fra eros e tormento, fra piacere e paura di perdere. Non c’è equilibrio, non c’è appagamento. Solo l’eco ossessiva di un desiderio che, invece di consumarsi, si avvita su se stesso.E diventa catena.

Quando le luci si spengono, un’eco pulsa ancora dentro. Al Coronet lo spettacolo non è mai uno: è moltiplicato, sdoppiato, duplicato dal luogo e da ciò che vi accade. E questa è la forza più sottile e perturbante della mia esperienza di quella sera: il teatro come specchio che non restituisce un’immagine, ma una geminazione di immagini che non si arresta, che accompagna lo spettatore anche fuori, sulle scale e poi in strada, lasciandogli addosso la sensazione che il desiderio, quando diventa ossessione, è un abisso che non smette di chiamarci.

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Visto al The Coronet Theatre (Londra) il 18 settembre 2025

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