Chi fa teatro — 27/09/2014 at 14:48

Il chiaro enigma di Eugenio Barba – L’Odin Teatret a Gallipoli

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Potrebbe avere un ‘chiaro enigma’ già nel titolo, La Vita Cronica, ultimo spettacolo dell’Odin Teatret a firma di Eugenio Barba. Cronica, potrebbe giocare con Kronos, tempo. Perché il tempo è la relazione intercorsa tra spettatori e attori nelle scene, o meglio la percezione del tempo, come una consapevolezza tra memoria e presente, un trapasso condiviso: veloce, fulminante e allo stesso tempo dilatato. Portato in viaggio su una zattera…

Nelle rughe degli attori c’è tutta la storia del gruppo norvegese, danese, in realtà senza connotazione geografica. Perché il mondo è stato palco e le voci si sono udite e sono state anelito senza confini geografici. Un teatro politico. Un (altro) teatro possibile. Reale.

Cinquant’anni sono realtà. Una vita in teatro. Un teatro di vita.

E la ‘zattera’, topos dell’impostazione spaziale Barbiana, è spazio scenico tra due tribune frontali di spettatori. Grotowskiano. Gli attori in mezzo, naufraghi e condottieri. E se le rughe raccontano la storia, i movimenti, il modulare le voci, i canti, la simbiosi tra loro e l’osmosi col pubblico, la biomeccanica da rituali liturgici, le azioni sceniche, dicono di un teatro probabilmente di un linguaggio non contemporaneo ma eterno, senza ombra di dubbio. Un teatro modello, archetipo, punto di riferimento di snodo e di passaggio. Per cui la visione spiega tanto teatrare visto negli ultimi cinquant’anni. E poco importante è se risulti gradevole, sgradito, incomprensibile, chiaro, fruibile e si potrebbe continuare con tutti gli aggettivi da critici. Di certo è una colonna portante della storia del teatro tutto. Insegnamento. Vessillo.

La vita cronica ha in sé gli elementi di un mezzo secolo di pratica, respiro, esistenza. L’extra-ordinario incarnato per uditori (non) ipocriti. Dieci personaggi. Il vecchio e il nuovo, intavolato non tanto negli stilemi quanto in un passaggio di testimone generazionale nemmeno troppo accennato (gli attori giovani sono un paio). L’incomprensibile, come portatore di speranza: “il dono della chiarezza – parole di Barba da un volumetto pubblicato dall’Odin sullo spettacolo – perde vigore quando seppellisce il dono dell’ambiguità e l’esperienza del non afferrare tutto. Se mi domando ‘che cosa è il teatro’? posso trovare molte risposte brillanti. Ma nessuna mi pare concretamente utile per agire nel mondo che mi circonda e per tentare di cambiarne almeno un piccolo angolo. Se invece mi domando in quale recinto paradossale dello spazio e del tempo si possano far affiorare le forze oscure che spadroneggiano nella Storia e nell’interiorità dell’individuo, e come renderle percettibili nella loro fisicità senza produrre violenza, distruzione e autodistruzione, la risposta mi appare evidente: è il recinto chiamato teatro.”

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La finzione scenica per reinterpretare il reale nell’effimero, restituendo stupore, crudeltà, violenza e visibilio. Nel recinto dove si può, dove è possibile dare materia a pulsioni, interiorità, voce e corpo in canto e dolore, vita e morte. Dieci personaggi ognuno di un’etnia diversa, terre diverse – similitudine con le terre toccate dall’Odin – primo cenno di universalità, di un comunicativo comune. Dieci personaggi e il contesto della guerra, eterna come l’uomo, il pensiero, il gesto. E lo spazio tra le tribune che diventa un luogo di costante pericolo: natura morta di ganci per animali come terminali, da cui gocciola un pezzo di ghiaccio in un elmetto (materia in metamorfosi), lame, violenze, tentativi di suicidio…

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L’estensione della mente (creativa) in corpo, colore, luce, gesto attorale, verbo scenico, meccaniche corali. Le esperienze individuali, intime, degli attori, di ogni singolo attore/individuo raccolte dal caos della sala, dall’embrione creativo. Personaggi/individui e parte di un corpo unico di scena. Comunicanti, respingenti, in combutta o confabulanti. Attorno, scenicamente, al sepolcro di un soldato, una vasca-bara trasparente, che è anche, all’occorrenza, tavolo per cena, porta, specchio e varco. Personaggi androgini, feticci, divinità, zingare veggenti, mercanti, soldati, mercenari, figli e padri, professionisti, artisti. L’umanità in rassegna. Entrare e uscire dalle tavole del palco, per e verso il pubblico, in un acuirsi dell’osmosi talvolta e l’innalzarsi di frontiere per altro.

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Tracce riconoscibili e ripetute del lavoro della compagnia, un’opera in divenire, innestata di rami su cui gemmano fiori nuovi. E l’innovazione di un utilizzo dell’illuminotecnica traccia ‘futuribile’ di uno spettacolo proiettato in avanti, non più uno sguardo sul passato o un’intermittenza col presente. Un futuro di cui si avverte la fine biologica di un tempo trascorso… compreso tanto più da renderlo enigmatico.

Non importa se è finzione, talmente abile da ingannare chi guarda da crederla autentica. Il resoconto è epidermico, intimamente profondo, gioioso e languido. L’ambiguo che è dono.

LA VITA CRONICA

Regia e drammaturgia: Eugenio Barba. Testi: Ursula Andkjær Olsen e Odin Teatret.

Attori: Kai Bredholt, Roberta Carreri, Jan Ferslev, Elena Floris, Donald Kitt, Tage Larsen, Sofia Monsalve, Iben Nagel Rasmussen, Fausto Pro, Julia Varley. Dramaturg:Thomas Bredsdorff. Consigliere letterario: Nando Taviani. Disegno luci: Odin Teatret.Consulente luci: Jesper Kongshaug. Spazio scenico: Odin Teatret. Consulenti spazio scenico: Jan de Neergaard, Antonella Diana. Costumi: Odin Teatret, Jan de Neergaard. Direttore tecnico: Fausto Pro. Assistenti alla regia: Raúl Iaiza, Pierangelo Pompa e Ana Woolf.Una produzione: Nordisk Teaterlaboratorium (Holstebro), Teatro de La Abadía (Madrid), The Grotowski Institute (Wroclaw)

Visto a Gallipoli il 24/09/2012  – Progetto internazionale “I mari della vita” – Istituto Tecnico Commerciale A.Vespucci (sala palestra).

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