Focus a teatro, Teatro — 27/08/2015 at 21:29

Antonio Calenda: “La rappresentazione della Passione”, memoria e metafora del dolore umano

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L’AQUILA – Siamo in un periodo teatrale particolare: gli spettacoli vengono ri-allestiti. Come l’imponente “Der Park” di Peter Stein (al Piccolo Teatro di Milano nella prossima stagione teatrale) con Maddalena Crippa nel ruolo di Titania che fu di Jutta Lampe nel testo scritto da Botho Strauss per il regista tedesco e allestito nel 1984 alla Städtische Bühnen di Freiburg prima che alla Schaubühne di Berlino. Prodotto dal Teatro di Roma è quasi uno spettacolo-evento (Peter Stein da vita all’epopea di Botho Strauss: “Der Park”). L’affascinante “Water”, invece, è uno spettacolo di danza con la coreografia di Francesca La Cava, vincitore del Premio Vignale danza nel 2010, rimontato ad inizio mese per il festival “I cantieri dell’immaginario”, a L’Aquila, con un cast rinnovato e regionale.

(foto: Annalisa Ciuffetelli)
(foto: Annalisa Ciuffetelli)

Forse un periodo di nostalgia. Oppure di ricerca nel passato di ciò che è stato buono e da cui poter ricominciare ad indirizzare il presente teatrale, tanto provato (ma quando mai non lo è stato?) da crisi economiche, drammaturgiche, organizzative. O un modo per mostrare al pubblico di oggi (preda di tv, internet e mass media e quindi con la voglia di conoscere e sapere tutto) ciò che non ha potuto apprezzare allora. Altra storia sono invece l’aspetto antropologico e quello celebrativo. Ed è anche in questi ultimi che va ricercato il riallestimento da parte di Antonio Calenda de “La rappresentazione della Passione”, stavolta denominata “Passio Hominis. Rappresentazione della Passione” per andare incontro alle richieste di originalità della Festa del Teatro (specializzata in “teatro dello spirito”) organizzata dell’Istituto Dramma Popolare di San Miniato, dove lo spettacolo ha debuttato il mese scorso. La messinscena resta però intatta, ha rivelato Calenda in conferenza stampa (svolta anche in chiave inaugurale nello spazio restaurato della sala lignea di Palazzo Fibbioni, nuova sede del Comune dell’Aquila), nell’ambito della 721° Perdonanza Celestiniana, con la quale ha riportato la pièce nella città che per prima l’ha vista nascere alla fine degli anni ’70. Unica novità, una melopea finale che ha voluto far scrivere dall’autore delle musiche originarie, Germano Mazzocchetti, in virtù del fatto che la nuova interprete della Madre dolora è l’attrice-cantante Lina Sastri.

"Passio Hominis", regia A. Calenda, 2015 (foto: Luigi Baglione)
“Passio Hominis”, regia A. Calenda, 2015 (foto: Luigi Baglione)

Ricorda Calenda: <<Praticamente questo spettacolo nacque per una necessità culturale. Quelle necessità che non vengono più avvertite e perseguite oggi nel teatro italiano, cioè quelle di creare degli enti sovvenzionati dallo Stato e, come dire?, dagli enti locali: una precisa identità. Cioè, i teatri stabili dovrebbero provvedere a creare un percorso di “identità” perché altrimenti si sottrae il piglio categorico di promuovere la cultura del luogo in cui si opera, si viene meno a uno dei principi costitutivi del teatro pubblico. Il teatro pubblico a che serve? Serve perché quel territorio possa esprimersi anche perché c’è il teatro pubblico.>>
Prendendo spunto da Grassi e Strehler  <<che avevano formato in Italia un’idealità forte, avevano perseguito quella di far sì che il teatro rappresentasse fortemente le aspirazioni del Paese attraverso gli autori viventi, attraverso gli autori anche non viventi ma fortemente espressivi di una identità. […] in un momento in cui bisognava dare a questo teatro un forte accento, un forte significato>>, Calenda andò alla ricerca delle origini del teatro italiano per esplorare <<il grande repertorio delle sacre rappresentazioni prima medievali e poi pre-rinascimentali […] andai sulla scorta di alcuni grandi studiosi del grande teatro delle origini, De Bartholomeis e Bonfantini […] e scoprii che c’era  depositato alla Nazionale di Roma, un codice […] Insomma, io andai  quando si potevano ancora consultare i reperti in pergamena e mi accorsi che qui c’era un materiale immenso che riguardava l’Abruzzo e che l’Abruzzo, scoprivo a mano a mano, aveva avuto grande importanza […] c’erano 4 Scuole; indagando scoprii, che erano più o meno così: quella di Sulmona, quella di Penne, quella di Chieti e quella dell’Aquila. C’erano queste grandi scuole in cui in queste città c’erano delle confraternite pagate dalla comunità che si adopravano per tutto l’anno per fare, durante la Settimana Santa, delle sacre rappresentazioni. Quindi provvedevano a costruire il testo, provvedevano a costruire la compagnia. La compagnia s’adoprava per tutto l’anno perché il Venerdì Santo si facesse la Sacra rappresentazione.>>

Quindi il teatro come identità e memoria di un certo luogo.

Fa bene alla salute ascoltare Calenda” aveva detto all’inizio dell’incontro Simona Malavolta, moderatrice anche, lo scorso febbraio, della conferenza stampa di presentazione del libro di Antonio Di Muzio (relatore pure in quest’occasione estiva di spettacolo calendiano) “Il teatro all’Aquila e in Abruzzo. Tsa, cronaca e storia” (Ricerche&Redazioni, Teramo, 2015) in cui sono ricordate le precedenti edizioni della “Rappresentazione della Passione” prodotte o co-prodotte da quel TSA di cui le 680 pagine raccontano i cinquant’anni.

Conferenza stampa di presentazione del libro “Il Teatro all’Aquila e in Abruzzo. Tsa, cronaca e storia” di Antonio Di Muzio, 16 febbraio 2015 (foto: Annalisa Ciuffeteli)
Conferenza stampa “Il Teatro all’Aquila e in Abruzzo. Tsa, cronaca e storia” di Antonio Di Muzio,  16 febbraio 2915. Da sinistra: A. Calenda, S. Malavolta, A. Di Muzio (foto Annalisa Ciuffeteli)

In quell’occasione, Calenda (più volte regista e pure direttore artistico del TSA) aveva rivelato che stava per riallestire la pièce e inoltre, forte dei suoi studi in Giurisprudenza con tesi in Filosofia del diritto col Professor Ciarletta (uno dei fondatori del TSA) che fu colui che poi lo portò, dal Teatro 101 di Roma, all’allora Teatro Stabile dell’Aquila, si è prodotto in un’interessante definizione di cosa sia il teatro e di come viva di memoria: “noi parliamo di teatro, ma il teatro celebra in sé stesso un’assenza, costitutiva. Pensateci un po’: il teatro mentre ne parliamo non c’è! E’ una forma d’arte che non c’è mentre noi ne parliamo.[…] Appena è stata, già non c’è. […] Ebbene però, questa assenza provoca in tutti noi il processo ineliminabile di una civiltà che è la memoria. Il concetto di memoria. Noi perpetuiamo il teatro non attraverso ciò che c’è […] Il teatro lo sapete che cos’è? E’ la memoria di quell’evento che noi conserviamo nella nostra interiorità, nella nostra memoria. E’ la memoria di ciò che non c’è. Ma è proprio la memoria a costruire una entità ulteriore rispetto alla realtà che tuttavia non c’è in questo momento, ma che c’è fortemente nell’animo di chi l’ha vissuta e parlandone ad altri o trasmettendola anche per veicolazioni implausibili, misteriose. Quante volte un mio spettacolo è stato trasmesso da un padre a un figlio perché ne ha parlato? Quante volte l’esito di un attore, di una grande performance, è arrivata a dei giovani attraverso il racconto che ne hanno fatto alcuni che sono stati testimoni di quell’evento? Ecco, quindi, che la memoria, che è l’assetto fondamentale, che è l’elemento fondante del teatro. E oggi tutti i grandi filosofi, ma anche i grandi epistemologi fondano il teatro sulla sua assenza. […] E va celebrato come tale.“
Cosa che, non si può non notare, a noi esperti e critici di teatro suona abbastanza familiare con i nostri scritti.

Già nel 2006 Calenda, nominato cittadino onorario di L’Aquila, aveva detto: “noi pratichiamo l’unica arte che è fatta da vivi per i vivi, per i contemporanei e fisicamente l’attore si immola per un pubblico“ (si può leggerla per intero nel citato libro di Di Muzio).

Conferenza stampa “La Passione. Il ritorno di un grande spettacolo”, 25 agosto 2015. Da sinistra: A. Di Muzio, A. Calenda, W. Tortoreto, S. Malavolta (foto: Annalisa Ciuffetelli)
Conferenza stampa “La Passione. Il ritorno di un grande spettacolo”, 25 agosto 2015. Da sinistra: A. Di Muzio, A. Calenda, W. Tortoreto, S. Malavolta (foto: Annalisa Ciuffetelli)

E’ quindi in questa luce che si può parlare di teatro e di “Passio Hominis” di Antonio Calenda. Il regista rivela che, essendo venuto meno un’iniziale interesse del Teatro Stabile d’Abruzzo e pur avendo trovato appoggio in un teatro romano e in un gruppo di imprenditori aquilani (tra cui Ezio Rainaldi, al di fuori del suo impegno come Presidente del TSA) che hanno finanziato parte delle spese di gestione e di organizzazione dei 25 collaboratori, lui è venuto qui gratis, solo per omaggiare la città e la sua Perdonanza Celestiniana, sebbene dice, “Questa cosa mi ha molto mortificato perché io credo che un teatro pubblico debba preservare anche i propri patrimoni.

Ma veniamo allo spettacolo, svoltosi a L’Aquila come da tradizione non in un teatro, ma in una chiesa. Quella romanica di San Pietro a Coppito, nel 1978, con protagonista Elsa Merlini, fu la prima; la basilica di Santa Maria di Collemaggio con Piera Degli Esposti per la Settimana Santa pasquale del 1998 fu l’ultima in città. Stavolta, per la Madre dolorosa interpretata dalla Sastri, l’architettura scenica è stata quella della navata centrale della maestosa Basilica di San Bernardino da Siena, nel centro storico, da poco restaura (dai danni del sisma del 2009) e riaperta.

Nel ruolo della Madre si sono avvicendate Elsa Merlini prima, Pupella Maggio, Claudia Giannotti e Piera Degli Esposti poi. Ora è la volta di Lina Sastri.
Sarebbe forse piaciuto al compianto Giampiero Fortebraccio, interprete di Juda in tutte le precedenti edizioni della pièce calendiana, partecipare anche a questa. Lo lascia intuire in una pagina del suo diario concessa a Di Muzio per il suo libro.

Rappsentazione della Passione - con Merlini e Fortebraccio
“Rappresentazione della Passione”, regia A. Calenda, con E. Merlini e S. Salvi, 1978-’79 (fonte: archivio TSA)

Delle precedenti edizioni, dice il regista, ci sono solo Stefano Galante (Pilato) e Luciano Pasini (Demonio). Emozionanti e coinvolgenti gli interpreti in scena (sebbene il luogo prescelto – pregno di sacralità – non avesse un’ottima acustica). A cominciare da quelli dei ruoli principali. Intensa Lina Sastri nel ruolo di Madre dolorosa. Sicuro di sé fino alla sfrontatezza Jesu di Jacopo Venturiero. Controverso e cattivo il, poi, pentito Juda di Francesco Benedetto. Tutte interpretazioni incisive, ma piene di tenerezza. Così come quelle degli altri attori.

Uno spettacolo aereo ed emotivo. Per soli 300 spettatori, metà dei quali seduti su panche nei lati lunghi del ring di scenografia. Sul fondo, a nascondere l’altare, scoperto poi solo sul tragico finale, una sorta di candido sipario che prima rivela una partoriente, in seguito il diavolo, infine la morte. Casualmente su un lato, come a guardare la scena, il mausoleo che ospita le spoglie di San Bernardino da Siena. Gli attori, dentro, sulla e nelle cuspidi della lignea passerella rettangolare: una fantasia di personaggi concretizzatisi. Sono quelli noti alla religione cristiana, del Nuovo Testamento che, nel presentare la Passione di Christo, coinvolgono per forza di cose, in primis anche la Madre e il cugino Joanni (Antongiulio Calenda), oltre che la Magdalena (Bruna Sdao) e Marta (Jacqueline Bulnes). Non vengono raccontati tutti gli accadimenti; si punta più l’attenzione sul personaggio di Juda, una sorta di deus-ex-machina che non sa (e non scoprirà, ma proverà il pentimento per un’azione che neanche lui ha capito da dove l’ha derivata) di ubbidire a una volontà superiore raccontata invece da Jesu. Si accenna ai fatti legati alla fine, come, il rinnegamento di Petro (Alessandro Di Murro) e la lavanda dei piedi, tra mendichi (Daniele Parisi), angeli (Noemi Smorra) e un demone. E, in virtù dell’attualizzazione contemporanea, anche tangueri. Il gemito finale di bimbo, dice Calenda, indica la Resurrezione. Gioia e speranza di rinascita. In scena, sedie e sgabelli. Poi il telaio di uno specchio. Tutto in legno.

Passio Hominis - F. Benedetto 2
“Passio Hominis”, regia A. Calenda, con F. Benedetto, 2015 (foto: Luigi Baglione)

La regia di Calenda acutizza l’incomunicabilità e rende i fatti estremamente emotivi. Attualizza i costumi antichi, intesi sia come abiti, ma anche come situazioni, laddove la cospirazione avviene in una barberia di inizio secolo e la morte, sebbene non manchi il rumore metallico dei chiodi, per fucilazione. Come gli ispirò la morte di Aldo Moro avvenuta poco prima del debutto originario della pièce nel ‘78. Dice il regista: “in quel momento nasce il problema Moro. Proprio in quei giorni. E io mi rendo conto che la metafora della Passione di Cristo è la metafora del dolore umano, del dolore di tutti noi. Tutti noi siamo Cristo. Questo era il punto che io volevo svolgere nello spettacolo. Ma come fare? E allora piano piano in qualche modo cominciai a riflettere su quelli che erano i ricordi della mia infanzia, del dopo-guerra, del grande flusso neo-realista della nostra cultura, delle testimonianze di Pasolini. Cioè feci ricorso non solo alla mera iconografia della rinascita del nostro Paese, ma anche ai conflitti che avevano in qualche modo segnato la lotta di Liberazione. Ci sono alcuni rinvii al Fascismo, al teatro di varietà che per me è stato un altro percorso identitario. […] Questa è la cultura del teatro: la cultura del ritrovare le origini, l’identità, il senso. […] Cristo divenne un operaio, un contadino, per meglio dire. E gli apostoli altrettanto. La Madonna sta dietro a una macchina da cucine, una contadina. E c’era tutta questa specie di flusso della italianità. C’era l’Italia del dopo-guerra.
Compresa L’Aquila. Ricorda il regista che nell’arrivarci per la prima volta nel ’69, quando ancora l’autostrada non c’era, a differenza di oggi era popolata di donne che “allora vi posso garantire, nei miei ricordi, andavano vestite di nero, col velo nero in testa, come la Madonna” dello spettacolo.

"Passio Hominis", regia A. Calenda, con L. Sastri e J. Venturiero, 2015 (foto: Luigi Baglione)
“Passio Hominis”, regia A. Calenda, con L. Sastri e J. Venturiero, 2015 (foto: Luigi Baglione)

“Uno spettacolo fortemente italiano, fortemente abruzzese. Ma quando si fa un teatro, e nell’arte in genere, un’operazione di forte identità, l’identità diventa universale. Per cui questo spettacolo parlava in tutto il mondo. […] Perché c’era qualcosa che faceva risuonare il senso del vero: come sempre nell’arte questa campana deve suonare, cioè l’autenticità della poesia che gli da il senso del vero. Se non c’è poesia non c’è vero. E quindi questo spettacolo nacque come bisogno culturale. Quello di fare di questo teatro un bacino di riflessione sulla città stessa. Che dire, poi? Che abbia avuto fortuna questo spettacolo è indubbio.
La pièce fu rappresentata ovunque. Oltre che nelle previste chiese (nella Basilica di Santo Stefano a Milano, è ancora emozionato Calenda, il cardinal Martini si inchinò di fronte alla Merlini), all’Opera House di Sydney (con la Giannotti), negli impensati palazzetti del gioco dell’hockey, e in luoghi come il Colosseo (quando fu spettacolo simbolo del Giubileo del 2000, con la Degli Esposti), è stato rappresentato nell’unico campo di concentramento italiano, vicino Trieste, ricorda il regista.
Vinse pure un premio, quello per la miglior attrice al “The 1981 Toronto Theatre Festival”, dice con orgoglio l’onorevole Romeo Ricciuti, che all’epoca accompagnò istituzionalmente l’allestimento in Canada.

Notevole il testo (inedito) che lo stesso Calenda ha adattato riducendo quello collezionato dalla copista teatina (inteso come “di Chieti” e non come del tale ordine, ha sottolineato Walter Tortoreto, docente di storia della musica ed esperto in sacre rappresentazioni), Maria Jacoba Fioria tra 1576 e 1577 unendo quattro scritti precedenti di area abruzzese (Sulmona, Penne, Chieti e L’Aquila). “Aveva varie stesure – dice il regista – varie ipotesi derivanti dalle varie Scuole, dalle varie città in cui venivano celebrate. Ma una suora teatina, Jacopa Fioria […] di Chieti si mette lì e fa una collazione, cioè mette insieme, tutte le varie stesure, le varie edizioni e tira fuori questo testo che è molto lungo. Io ho estratto le parti più sostanziali per una rappresentazione. E avevo questo testo oggetto di riflessione di studio perché mi interessava indagare sul realismo del teatro di questa città, di questa regione, perché, lo ribadisco, di come il teatro deve essere questo.
Si tratta di un’opera che, drammaturgicamente parlando, nulla ha da invidiare ai classici del teatro tragico. La lingua è uno straordinario italiano arcaico con rari latinismi e, appena qui e lì, un lontano accento locale.

Il 9 novembre prossimo, in occasione del Convegno Ecclesiale Nazionale della Cei, lo spettacolo sarà nella Chiesa di San Lorenzo a Firenze. E non gli dispiacerebbe essere simbolo anche di questo nuovo Giubileo.

 

Riferimenti dell’articolo:

Conferenza stampa di presentazione del libro “Il Teatro all’Aquila e in Abruzzo. Tsa, cronaca e storia” di Antonio Di Muzio, 16 febbraio 2015, c/o Auditorium “Elio Sericchi”, L’Aquila.

Conferenza stampa “La Passione. Il ritorno di un grande spettacolo”, 25 agosto 2015, c/o Sala Stampa del Comune di L’Aquila presso Palazzo Fibbioni, L’Aquila.

Pièce teatrale “Passio Hominis. La rappresentazione della Passione”, regia A. Calenda, vista il 25 agosto 2015 all’interno della Basilica di San Bernardino, L’Aquila (721° Perdonanza Celestiniana)

“Passio Hominis. La rappresentazione della Passione. Sacra rappresentazione di origine medievale desunta dal codice V.E. 361 della Biblioteca Nazionale di Roma curato negli anni 1576 e 1577 dalla copista Maria Jacoba Fioria”
Adattamento e regia: Antonio Calenda
Musiche: Germano Mazzocchetti
Scene e costumi: Domenico Franchi (dai bozzetti originali di Francescangelo Ciarletta e Ambra Danon)
Luci: Nino Napoletano
Con: Lina Sastri, Jacopo Venturiero, Francesco Benedetto, Rosa Ferraiolo, Jacqueline Bulnes, Antongiulio Calenda, Alessandro Di Murro, Stefano Galante, Marco Grossi, Daniele Parisi, Luciano Pasini, Noemi Smorra, Stefano Vona.
Fisarmonica: Fabio Ceccarelli
Percussioni: Tiziano Tetro

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