azioni performative, Danza, Interviste — 27/07/2016 at 17:09

L’arte è la palestra dove rimettere in discussione le certezze

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PORCARI (Lucca) – Incontriamo Roberto Castello prima della presentazione di Luogo Comune. Nove work in progress ideati da esponenti di diverse discipline, prodotti all’interno di un laboratorio tenutosi a SPAM!, condotto dal musicista Alvin Curran, dalla coppia Rezza/Mastrella, dal coreografo Emanuel Gat e da Roberto Castello . Mentre i preparativi procedono, facciamo il punto sulla situazione della danza contemporanea, dopo la recente sentenza del Tar del Lazio che mette in discussione la Riforma del Fus. E, soprattutto, dopo il Tavolo Nazionale Produzioni Danza, che si è svolto a Bologna il 29 e 30 giugno scorsi. Un incontro inteso a far dialogare la molteplicità di artisti e compagnie di danza che operano in Italia e Aidap, l’Associazione Italiana Danza Attività di Produzione che, a sua volta, aderendo a Federdanza, fa parte di Agis (l’interlocutore istituzionale per lo spettacolo). Un colloquio molto schietto, come di consueto con Roberto Castello, che non si nasconde dietro un dito quando chiede: «Siamo sicuri che il teatro privato, che si muove in una logica imprenditoriale, abbia diritto ai fondi pubblici?», o quando contesta il sostegno agli under 35, perché il rischio: «È quello di ritrovarsi con degli over 35 che sono ancora degli adolescenti perché non si sono mai misurati con la dimensione reale di questo lavoro».

Lei è reduce dal Tavolo Nazionale Produzioni Danza. Una sua impressione sull’atmosfera che si respirava e sulla partecipazione all’iniziativa?

«Credo che inizialmente ci fosse un po’ di timore di essere coinvolti in dinamiche corporative e settoriali, o che Aidap avesse organizzato l’incontro per asseverare qualcosa. Quando siamo riusciti a spazzare via questo tipo di timori, ci siamo subito divisi in tre tavoli di lavoro. Uno sulla tematica delle residenze per il settore danza, il secondo sulla mobilità come confronto orizzontale tra esperienze individuali, e il terzo, sui principi ai quali si dovrebbe ispirare un nuovo quadro normativo. Le presenze erano circa 80, spaziavano dai 25 ai 75 anni, provenienti pressoché da tutte le regioni italiane e da esperienze di lavoro molto diverse fra loro».

Roberto Castello foto  Roby Schirer
Roberto Castello foto Roby Schirer

Nel primo punto del documento finale scrivete che: “Lo stato di deve assumere la responsabilità di discernere cos’è cultura e cosa prodotto commerciale”, riservando il sostegno economico al primo. Chi dovrebbe essere incaricato di selezionare i prodotti culturali?

«Mi permetto di eludere la domanda diretta. Parto, al contrario, da questo punto fermo: lo Stato ha la responsabilità di governare la cosa pubblica. Nel documento affermiamo che, viste le difficoltà estreme nelle quali  si trovano larghe fasce della società italiana, per ottenere  prestazioni minime (come una tac in una struttura ospedaliera pubblica), non sia giusto pensare che i fondi destinati allo spettacolo siano tutti necessari. In parole povere, si può considerare prioritario un cachet da duemila euro a serata, per un attore di un teatro nazionale, rispetto al diritto alla salute  e sottoporsi ad un esame diagnostico? Oppure, siamo sicuri che il teatro privato, che si muove in una logica imprenditoriale, abbia diritto ai fondi pubblici? Qual è il discrimine, ovviamente, è il nodo difficile da sciogliere. E non penso che ci sia una risposta unica e permanente. Credo, al contrario, che la sensibilità dei tempi e le dinamiche della società nel suo complesso spostino questa linea di demarcazione e che non sia giusto eludere la risposta».


La recente sentenza del Tar del Lazio sui ricorsi dei teatri Elfo-Puccini e Teatro Due di Parma, in merito ai parametri quantitativi della Riforma del Fus, ha rimesso le carte in gioco nonostante la sospensiva della Corte di Stato?

«La richiesta del parametro quantitativo, in realtà, viene proprio dalle categorie. Dall’Agis, in primis, perché vi siedono i delegati “politici” delle strutture aderenti, siano esse compagnie o teatri. Queste persone, però, non sono artisti e spesso hanno solo un passato a livello organizzativo e, quindi, riducono la realtà del mondo dello spettacolo a categorie elementari. L’Agis, però, è l’unico organismo che Ministero, Camera e Senato individuano come interlocutore istituzionale per il nostro settore. Il problema è questo. Le persone che dovrebbero esprimere le nostre necessità sono solo la faccia burocratica del pensiero artistico. Eppure è in quella sede che si produce il comune sentire sull’argomento ed è fatale che non si voli alto. Voglio fare un passo indietro. Io non ho mai avuto rapporti di lavoro con la Compagnia dell’Elfo, non sono mai stato ospitato né ho mai ospitato un loro spettacolo, suppongo che incontrando Elio De Capitani per strada non ci riconosceremmo. Ma se un cittadino, chiunque, fa un ricorso al Tar e lo stesso emette una sentenza in virtù della quale la norma esaminata è riconosciuta come incostituzionale, la colpa è del cittadino che ha fatto ricorso? La prima domanda che ci dobbiamo fare è questa: chi ha redatto la norma? Questo qualcuno dovrebbe assumersi le proprie responsabilità. Ciò non significa che non ci sia un problema pratico, ma questo genere di contingenze sono state affrontate dal Consiglio di Stato che ha bloccato il Ricorso per evitare il fallimento economico delle Compagnie. Del resto, era ben noto che il aveva buone possibilità di essere vinto e, non a caso, il Consiglio di Stato è intervenuto celermente. Al di là del problema pratico, bisogna distinguere tra quotidianità come bisogno di fondi, il quadro costitutivo nel quale ci muoviamo, le leggi applicative, e la partita competitiva che gli artisti e le strutture giocano all’interno di questo campo. Confondere i piani è dannoso, soprattutto per i giovani».

Roberto Castello foto  di AlessandroBotticelli
Roberto Castello foto di AlessandroBotticelli

Nel documento si sollecita una distribuzione delle risorse semplificata, superando la divisione fra generi e l’abolizione dell’under 35. Quest’ultimo, al contrario, è un punto fermo della Riforma del Fus, rivendicato anche in un documento di C.Re.S.Co. Ci spiega la vostra posizione?

«Non riesco a credere che questa sia l’opinione dei giovani che lavorano in ambito teatrale e aderiscono a C.Re.S.Co. Penso ci sia del tatticismo in una tale posizione. Se in Italia funzionasse tutto, che bisogno ci sarebbe di avere un sostegno per gli under 35? Vogliamo fare un’analisi severa dei risultati di questo sostegno? Primo, ha distrutto le Compagnie che non avevano un forte rapporto con il pubblico, dato che il mercato si è riempito di decine di spettacoli – per lo più veramente modesti. Non in quanto prodotti da giovani ma perché, di fronte a una richiesta gonfiata di spazi per persone – che non è detto – abbiano l’esigenza e la spinta per ideare quei prodotti, è fatale che si abbassi la qualità. Secondo, i teatri si stanno abituando a pensare che con 350 euro possono ospitare uno spettacolo. Al contrario, noi dovremmo dare ai giovani un sistema fluido e che funziona. Per evitare che gli under 35, arrivati a 36 anni, non abbiano più un posto dove andare. Il problema vero è l’assoluta calcificazione del sistema teatrale. A parte coloro che si muovono nel campo delle stabilità nazionali che, essendo pubbliche, impongono un minimo di rotazione, nessun direttore artistico è obbligato a lasciare il proprio posto – nemmeno io. Il problema degli under 35 non va affrontato in termini di privilegio o facilitazione; non si deve abbassare la qualità, perché il rischio è di ritrovarsi con degli over 35 che sono ancora degli adolescenti perché non si sono mai misurati con la dimensione reale di questo lavoro».

Roberto castello foto di G. Graziani
Roberto castello foto di G. Graziani

Voi chiedete un monitoraggio dei soggetti finanziati da parte dello Stato, in modo da verificare l’effettiva “restituzione di un servizio che la collettività possa riconoscere come bene di interesse comune”. Cosa intendete?

«Se io potessi spiegare al cittadino a cosa serve quello che faccio e perché gli sia utile, può essere che alla fine il cittadino decida di entrare in questa struttura e diventare spettatore. Ma se mi percepisce come un qualcosa che con lui non ha niente a che fare, che appartiene a una dimensione avulsa da qualsiasi dinamica di utilità sociale e di scambio, il cittadino non frequenterà mai il teatro. Per parametrare l’utilità di una cosa bisogna sapere a che cosa serve. Noi che lavoriamo nello spettacolo dovremmo finalmente definire a che cosa serviamo e a che cosa serve il Fondo Unico per lo Spettacolo. Direi che sarebbe riduttivo se il Fus fosse solo un ammortizzatore sociale, un modo per diminuire il numero di disoccupati del settore. Cambio prospettiva. Secondo l’Ocse, dati del 2013, il 47% degli italiani soffre di analfabetismo funzionale. Siamo il fanalino di coda su 24 Paesi europei presi in esame. O non abbiamo mai imparato a leggere e a scrivere correttamente o, terminati gli studi, siamo regrediti fino a non essere più in grado di usare le informazioni acquisite. A cosa serve il meccanismo democratico quando quasi il 50% delle persone non è in grado di operare delle scelte, basate sull’effettiva comprensione di ciò che legge o apprende? Forse il nostro lavoro dovrebbe essere proprio quello di stimolare l’apprendimento e il pensiero critico. Nel quadro di una macchina sociale efficace, il sistema teatrale dovrebbe essere una delle componenti che fa sì che le persone, terminati gli studi, non regrediscano fino a essere dei sostanziali analfabeti. Il nozionismo, del resto, non è sufficiente a garantire un meccanismo sociale funzionante. Perché le società sono organismi in grado di evolversi al passo con i tempi, solo se sviluppano un pensiero adattivo. Evitando di applicare schemi validi fino a ieri, ma che oggi potrebbero essere superati. L’arte, insieme alla ricerca scientifica, è la palestra dove rimettere in discussione le certezze».

Molti punti del documento finale di Bologna fanno riferimento al sistema della distribuzione che, in Italia, sembra vincolato allo scambio tra teatri nazionali (o ex stabili) e a strutture finanziate dallo Stato, che circuitano soprattutto spettacoli di botteghino. L’alternativa?

«Secondo me, il problema è la domanda. Bisogna partire dal pubblico, e poi fare un ragionamento di sistema. Che cosa può spingere un cittadino ad andare a vedere uno spettacolo di una Compagnia che accede al Fus, ossia non lavora in una logica speculativa ma di servizio, intesa a diffondere un sapere e una serie di valori nella società? Secondo me, dei contesti locali, pubblici, motivati a produrre, che offrono residenze, e hanno la capacità di lavorare con continuità sul territorio. Se ciò avverrà, le persone andranno a teatro per conoscere qualcosa di nuovo e non saranno interessate all’acquisto di un prodotto sicuro. Né a vedere l’artista televisivo che, comunque, non sarà più finanziato con fondi pubblici. E questo, perché l’impresario privato che propone spettacoli commerciali non fa il nostro stesso lavoro. Ma il legislatore deve tirare una riga e separare lo spettatore che vuole assistere a legittime operazioni commerciali, da quello che è mosso dalla curiosità di conoscere e divorare il mondo. Non è possibile elargire il Fus a teatri simili a gusci vuoti, riempiti saltuariamente, e che perciò necessitano di prodotti forniti assieme a un proprio pubblico. Tutto questo non può avvenire in un quadro sovvenzionato, perché il risultato è il finanziamento del teatro speculativo. Del resto, il teatro, nella sua accezione più ampia, è l’unico settore a produrre cultura che si regge sull’apporto pubblico. Ma, sebbene in condizioni teoricamente ottimali, noi che lavoriamo nel settore, invece di preoccuparci di produrre il pensiero più alto, spesso si comportiamo come una massa di bottegai. Perché non siamo in grado di definire la nostra funzione?».

Nel documento chiedete un aiuto per distribuire gli spettacoli a livello internazionale. Ma in Italia si parte da una Riforma del Fus che privilegia la circuitazione regionale a scapito di quella nazionale. Non vi sembra utopistico?

«La danza, molto più della prosa, è composta da un popolo migrante. Tutti vedono come funziona il sistema teatrale altrove e si accorgono che il nostro mondo non finisce in frontiera. Faccio un esempio: io sono stato a Francoforte per una coreografia in un’Accademia e, causalmente, mentre mi trovavo lì, sono arrivati alcuni esponenti di accademie europee delle più diverse discipline. Mi invitano a partecipare e io, naturalmente, accetto. L’incontro si rivela oltremodo interessante, e mi preme chiedere come mai non siano presenti gli italiani. La risposta è stata che gli organizzatori non sapevano chi contattare. Nel nostro Paese, non abbiamo referenti o strutture, per il nostro settore, in grado di relazionarsi con l’estero. E in secondo luogo, gli italiani non parlano inglese. Auspichiamo, quindi, che si facciano degli investimenti che ci permettano di entrare in una dinamica internazionale. Il sistema teatrale italiano deve entrare in una logica di sostegno simmetrico tra produzioni di Stati differenti. Bisogna cominciare a pensare gli spettacoli in una dimensione europea – non per conquistare nuovi mercati bensì in quanto europei».

Ci saranno altre iniziative, a seguito di questo incontro di Bologna?

«Spero che a settembre tutti noi che lavoriamo in teatro, come cittadini competenti e non come portatori di interessi, torneremo a riunirci per provare a stilare un documento fondativo, su quelli che dovrebbero essere i principi che sovrintenderanno alla normativa a venire. Dobbiamo alzare lo sguardo dalla punta dei nostri piedi e capire finalmente dove vogliamo andare e come renderci utili alla collettività. Se fossimo in grado di mettere a punto e di condividere un documento, anche semplice, sono certo che il nostro modo di agire apporterebbe nuovi spettatori, e una fiducia diversa nei nostri confronti da parte di un pubblico più consapevole».

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