Recensioni — 24/02/2018 at 00:41

Latini: il verdetto finale “colpisce” il Teatro Comico di Carlo Goldoni

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MILANO – Sarebbe piacevole, per noi spettatori di oggi, rovesciare lo spettacolo diretto e interpretato da Roberto Latini da “Il teatro comico” di Carlo Goldoni, come una tenera boule à neige in cui la neve artificiale si raccoglie lentamente, nel tempo; e poi, capovolto il piccolo oggetto, essa cade forte nello spazio. È infatti nel secondo atto – il primo è decisamente “faticoso”che le esplosioni di creatività degli attori e della regia (anche senza i petardi da festa del patrono) raggiungono la massima forza. E, in un vortice giocoso di macchine pressoché infantili cui ci ha viziato il lavoro di Latini dai Giganti a Ubu Roi al Cantico, si succedono in una commistione dialettica: la gestualità dei commedianti di piazza e le frasi mute della danza; la misura en travesti (Marco Sgrosso) e la dismisura dialettale (Marco Manchisi); la comicità casereccia del Dottore (Francesco Pennacchia) e la stilizzata euforia di Rosaura (Elena Bucci) che sembra ispirarsi ora al kabuki, ora alle marionette e regala una delle scene più poetiche dello spettacolo quando – grazie alle luci di Max Mugnai, i costumi di Gianluca Sbicca, le musiche di Gianluca Misiti – danza meravigliosa e assoluta nel vuoto e nella nebbia.

Marco Sgrosso, Elena Bucci, Roberto Latini, Manchisi, Foto ©Masiar Pasquali

L’amore di Roberto Latini è tutto per gli attori, se stesso incluso nel ruolo bifronte di Orazio/Arlecchino. E l’inedito ensemble convenuto ne “Il teatro comico” lo ricambia con una gamma di soluzioni impregnate di memorie del corpo, dal magistero vissuto di Leo De Berardinis su – su all’indietro fino alla rivoluzione assimilata di Vsevolod Mejerhol’d. Ma invece della voluttuosa Sciarpa – nella celebrata regia del Dottor Dappertutto dal libretto di Schnitzler – la Colombina di Latini (Stella Piccioni) sbatacchia miseramente una Pistola. Scriveva il dottor Anton Cechov: “Se c’è una pistola, prima o poi deve sparare”, per dire che in un romanzo o su un palcoscenico non ci devono esserci oggetti inutili. Qui la pistola c’è, spara, e tuttavia quanto inutile (e prevedibile) ne è l’uso transitivo. Si comincia con un melodrammatico colpo al cuore sanguinolento di Orazio/Arlecchino, si finisce con una banale sparatoria di Colombina (degna di Lara Croft) in tutte le direzioni e contro il vuoto. Quanto vecchi sono quegli spari, non solo perché ormai nessuno degli allestimenti di maestri internazionali (Robert Wilson in primis) prevede questo choc realistico ottocentesco, ma soprattutto in questo caso. Se infatti lo spettacolo di Latini mostra il killeraggio attuato da Goldoni nei confronti delle maschere e della Commedia all’improvvisa, per impiantare con la sua Riforma quella di Carattere, la sensazione di morte e di fine di qualcosa di vitale, disordinato, fisico è già presente in ogni scena, assai prima della catalessi di sette Arlecchini.

 

@Masiar Pasquali

Onore a Carlo Goldoni per aver individuato le regole della scrittura delle parti e della sommaria compostezza borghese, per aver creato quei finali d’amore (“Amore, amore, amore”, grida ironico Orazio/Latini), di matrimoni tra giovani amanti clandestini e umiliazioni di “veci” Pantaloni assatanati; ma il verdetto finale è: morte. Nonostante che l’adattamento e la regia stiano assolutamente, e quasi per sfida, dentro a quel testo goldoniano che inaugurò le Sedici Commedie nuove scritte in un solo anno, il 1750. E dimostrano che di testo si può morire se lo si considera un diktat; non invece come una traccia (le stesse battute possono diventare Commedia Lacrimosa o premonitorie frecciate ciniche alla Pinter). “Stiamo attenti a restare nel testo, non per rappresentarlo, ma per mostrare quanto abbiamo raccolto standoci dentro”, spiega il regista.

Si vuole forse invocare un tardivo e impossibile senso di colpa da parte dell’Autore nel momento del suo nascere e dell’intuizione della sua onnipotenza? Può darsi. La nascita successiva, che surclasserà l’Autore, sarà quella del Regista. Come non vedere in controluce il riferimento a Giorgio Strehler, proprio qui nella sua casa (il Piccolo Teatro, anche produttore dello spettacolo)? Ma l’omaggio al Maestro, attraverso le scene per agili silhouettes di Marco Rossi, è sinceramente devoto, oltre che nel gag della mosca cavallo di battaglia di Moretti e poi di Soleri. Ad ogni buon conto, la postura della grande figura di cartapesta di Arlecchino, collocata in proscenio (che segna l’interruzione delle prove della commedia in commedia abbassandosi e rialzandosi come la sbarra di un passaggio a livello) diventa così violentemente chiara solo alla fine: è di paura e insieme di lotta.                                                                           Visto al Piccolo Teatro “ Grassi” di Milano il 22 Febbraio 2018

@Masiar Pasquali

Sfogliando “Goldoni. I capolavori” di Giovanni Antonucci, (storico del teatro e dei mass media, critico e drammaturgo) curatore dei quattro volumi in cui è compreso anche il ‘Teatro Comico’ (edito da Newton), ci si imbatte in una frase che spiega bene cosa rappresenti l’autore di tante commedie di successo; a cui il teatro deve un riconoscimento universale. Scrive, a proposito delle opere del drammaturgo veneziano, riprendendo le parole di Gianfranco Folena nel saggio “L’Italiano in Europa. Esperienze linguistiche del Settecento (Enaudi): “Goldoni, Voltaire e Mozart sono «tre artisti sommi che in gradi diversi esprimono la quintessenza del cosmopolitismo europeo settecentesco». D’altra parte, i testi goldoniani sono stati pubblicati e tradotti in molte lingue…“. Antonucci introducendo la collana “Grandi Tascabili” che contengono ben 25 titoli spiega anche come «Goldoni è un artista (mai come in questo caso è d’obbligo il presente storico utilizzato come presente indicativo per fare riferimento a eventi e persone anteriori alla sua annunciazione, per spiegare la sua contemporaneità, ndr), non un ideologo, un artista che in quanto tale è attentissimo a tutti gli aspetti della realtà che lo circonda (…) egli ha una piena consapevolezza che il mondo sta cambiando, che i privilegi nobiliari non hanno alcun reale fondamento, che i valori nuovi – propri della cultura illuministica – si stanno imponendo nella società.. ».

@Masiar Pasquali

 

L’analisi prosegue citando anche un certo movimento di pensiero critico che aveva un suo seguito anche nella critica a Goldoni presente dalla «metà degli anni Cinquanta alla fine degli anni Settanta e prosegue ancora oggi nella versione aggiornata Marx+Freud+Lacan+Derrida (la pubblicazione è datata però 1992, ndr), e ha egemonizzato il discorso su questo autore»; questione che lo stesso Antonucci smentisce con viva forza allorché spiega che «il suo illuminismo non ha nulla di programmatico, di radicale e populistico». Goldoni è un vero riformatore e lo dimostrerà fino alla fine della sua carriera, sempre con lucida coerenza, nonostante le molteplici difficoltà che all’epoca dovette subire. È più che sufficiente scorrere la sua biografia professionale quanto umana, per comprendere gli sforzi, la fatica intellettuale , i rischi trasformatisi in censure, la scarsità anche di sostegno economico, per avere la prova di quanto appena affermato. Chi cerca di sondare, svelare, e soprattutto “ricostruire” l’intera produzione drammaturgica di Goldoni, sa quanto sia un compito arduo, “infinito” ma fonte inesauribile di ispirazioni.

Antonucci sottolinea bene quando scrive: «Goldoni ha davanti a sé un’impresa di proporzioni storiche, quella di superare e dissolvere la commedia “improvvisa”, non partendo dalla tradizione letteraria, ma dal linguaggio e dalla materia della stessa Commedia dell’Arte» E lo fa con l’unico strumento a lui conosciuto e praticato: il teatro. Quel teatro che è la sua vita stessa, mescolata e coniugata con esperienze di lavoro cosi diversificate tra di loro, da apparire ai giorni nostri, come un precursore del “multitasking” o multiprocessualità, stante a significare la capacità di eseguire più programmi contemporaneamente.. Lui saprà tracciare una nuova rotta per il teatro stesso e metterà in relazione diretta il teatro con gli attori e il pubblico. Come molti drammaturghi, registi, artisti teatrali, cercano da decenni di fare. Pare una contraddizione affermarlo ma non è per nulla scontato associare le due cose: palcoscenico e platea; teatro e spettatori; attori-testo- regista, ed è quello che farà Goldoni per rivoluzionare un sistema ormai in crisi, sperimentando temi anche molto diversi tra di loro. Il “Teatro Comico” segna la fine di un’epoca teatrale e il teatro oggi ne è debitore. Ora Roberto Latini è in scena al Piccolo Teatro “Grassi” di Milano e la coincidenza appare curiosa nello scoprire che nel 1750 la sua commedia fu rappresentata a Milano nell’anno stesso della sua genesi “per due sole sere (5 e 6 ottobre) e di seguito a Venezia.

@Masiar Pasquali

 

E come ricorda giustamente Giovanni Antonucci «non ha mai avuto grande fortuna sui palcoscenici, neppure in questo secolo (Il Novecento, ndr); ma la carta vincente del ‘Teatro Comico’ è l’intuizione dell’autore di rappresentare non una generica compagnia di comici, ma la compagnia Medebach (ne era il drammaturgo di riferimento per contratto stipulato con il fondatore Gerolamo Medebach). Teatro nel teatro. Si chiude il sipario sul “vecchio” e apre quello “nuovo” per nulla scontato e semplice da realizzarsi: Goldoni vincerà la sfida.

 

Roberto Rinaldi

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