Teatro, Teatrorecensione — 23/03/2012 at 21:47

“Land Lover”: la terra dell’amore che non c’è

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Una terra dei miracoli. Un santone, una devota, una transessuale, un imprenditore. Quattro solitudini. Con Land Lover, Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari, registi dell’omonima compagnia, portano sul palco dell’Arena del Sole di Bologna un ambizioso studio sull’essere umano. A fare da cavia, come topi in gabbia inconsapevoli, quattro “tipi umani” del nostro tempo. Quattro figure disegnate con assoluta coerenza di tratti, prive di increspature psicologiche, porta-parole di istanze chiare e univoche. Istanze che si danno alla vista non nella loro individualità ma grazie a meccanismi di incontro/scontro tra i personaggi, attraverso, cioè, la messa in scena di dinamiche relazionali.

È per lo più un susseguirsi di dialoghi tra due o tre personaggi, infatti, a riempire, una dopo l’altra, le scene che si rincorrono a pieno ritmo sul palco, inframezzate, in alcuni punti, da un messaggio suadente che rinnova periodicamente l’invito a soggiornare presso la terra dell’amore. A ospitare il girotondo degli incastri umani messi a punto dai due registi, infatti, è Land Lover, oasi di effimera felicità in cui Pedro, un prete a metà tra il missionario e Vanna Marchi, gestisce un’attività di sostegno spirituale per le anime perse, dispensando a destra e a manca esorcismi e previsioni per il futuro. È nell’improbabile sala d’attesa dell’ufficio di tale santone, ornata di un baldacchino un po’ altarino sacro e un po’ bazar di souvenir, che si incontrano gli altri personaggi, dando vita a una girandola di comici fraintendimenti.

Il fil rouge che tiene insieme le quattro figure è la ricerca. Una ricerca, che lo spettacolo racconta solo nel suo epilogo, di qualcosa da cui si sentono irresistibilmente attratti ma che non si lascia afferrare. A ogni passo in avanti, infatti, la bandierina della meta sembra spostarsi sempre un po’ più in là; come un gatto che insegue la pallina trascinata con un filo dal suo padrone, i quattro malcapitati personaggi rincorrono disperatamente delle risposte che non arrivano mai. L’ingenua convinzione di poter trovare sollievo alle proprie crisi di identità, rifugiandosi in un luogo lontano piuttosto che cercando dentro se stessi, spinge i quattro personaggi verso un viaggio pieno di speranze. È nel vuoto tra la necessità impellente di avere qualcosa e l’impossibilità di ottenerla, infatti, che si insinua l’illusione di una terra dei miracoli, di una Land Lover, appunto, dove si proiettano tutti i propri desideri immaginando un eden in cui sugli alberi crescono magie insieme a frutti succulenti.

Chiara allusione alle mete del turismo sessuale, dove sembra che tutto si possa ottenere con facilità, Land Lover rappresenta il luogo dove qualsiasi cosa può succedere, dove Pedro può convincersi di saper fare miracoli per aiutare la povera gente; dove Niki, transessuale desiderosa di tenerezza, può trovare, dopo tante storie fallite, l’amore della sua vita; dove Eva, esperta di qualsiasi pratica (pseudo) religiosa in voga, possa trovare finalmente il Dio che cerca; dove Gianni, imprenditore puttaniere e mammone, possa liberarsi dalla presenza ossessiva della madre. Un ricerca molteplice, dunque, declinata secondo forme differenti del sentimento amoroso. Sesso, fede, tenerezza si intrecciano sulla scena per dare vita a un vero e proprio caleidoscopio umano.

La cieca fiducia nella possibilità che un santone e una terra esotica possano esaudire, per magia, i loro sogni, porterà tutti e quattro i personaggi a sbattere dritti contro il muro delle proprie illusioni. Costretti dalla vita ad aprire gli occhi di fronte alla propria cecità, vedranno in frantumi le maschere che li avevano racchiusi, fin dalla prima battuta, in una rassicurante univocità di carattere e di scelte. Durante tutto lo spettacolo, infatti, gli attori restano decisamente schiacciati all’interno dello stereotipo di cui si rendono porta-voci. Ne risultano personaggi bidimensionali, immobili nel loro aspetto esteriore, come maschere fisse della tragedia greca. Essi esprimono solo a parole, verso la fine, la loro natura umanamente ambigua, il loro conflitto interiore. L’unico neo di questo spettacolo risiede forse proprio nella mancanza, nel finale, di un tempo sufficiente a mostrare l’effettiva caduta delle maschere indossate dai personaggi. Una caduta che nelle intenzioni registiche c’è, ma che, raccontata solo a parole e anche molto sbrigativamente, non viene incarnata appieno da tutti i personaggi in scena e non lascia il tempo agli spettatori di elaborarne il senso profondo.

A riempire di colore i decisi tratti al carboncino dei quattro personaggi, una frizzante vernice di leggerezza e di comicità. Si ride per tutta la durata dello spettacolo. Fondamentale, in tal senso, la bravura degli attori nel creare personaggi fortemente caratterizzati, dall’imprenditore cinico e mammone di Roberto de Sarno al santone siciliano, paralitico per metà, interpretato da Eugenio Vaccaro. Punta di diamante, Gabriella Casolari. L’attrice sfoggia dei tempi comici eccezionali che impastati a una postura goffa, a buffi occhiali a fondo di bottiglia, e a una densa e cantilenante parlata modenese ne fanno un personaggio irresistibile. Forse quello dai tratti comicamente meglio disegnati.

A spezzare il tono leggero della farsa, deformando il riso in una smorfia amara, è il personaggio interpretato da Berardi, una transessuale malinconica dalle movenze lente e barcollanti che, nel tentativo disperato di trovare l’amore vero, cede al fascino meschino dell’imprenditore lasciandosi andare a libidinose danze nella discoteca dell’isola e a romantici sogni di nozze che sfumeranno ben presto in un addio al rallenty. Land Lover si rivela allora terra di solitudine e di malinconia. Di desideri disattesi e di speranze abortite in partenza. La terra dell’amore. Ma quale amore? Un amore che non c’è. Che non ci può essere perché non è lì che bisogna cercarlo.

 

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