Teatro, Teatrorecensione — 21/11/2013 at 14:40

Sono adulti che fanno i bambini nei “Giochi di famiglia” con la regia di Paolo Magelli

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Era una città strana, la mia. Giochi di famiglia della drammaturga serba Biljana Srbljanovic per la regia di Paolo Magelli ed interpretato dalla Compagnia Stabile del Metastasio, inizia inaspettatamente nel foyer del Teatro Fabbricone di Prato con un prologo liberamente ispirato a La città di pietra di Ismail Kadarè. Da un’impalcatura di ferro che potrebbe essere quella di un cantiere edile si affaccia un operaio (Fabio Mascagni) in tuta blu, che attraverso una riflessione tecnico-filosofica e dal suono tutto onomatopeico sulla caduta delle gocce di pioggia, annuncia una serie di eventi catastrofici e concatenati, come l’esondazione del fiume, per giungere alla conclusione che in quella città di pietra, di cui non si conosce il nome, non era facile essere bambini.

Un’apertura inusuale per uno spettacolo teatrale, che ben si adegua alla seconda parte della storia, in cui attori adulti interpretano personaggi bambini che giocano a fare i grandi in un’ambientazione priva di luogo e di tempo (un campo nomadi? un cantiere? una discarica?), in cui giochi e giocattoli sono disseminati su un terreno irregolare e sterrato. Volete giocare a fare la famiglia? Con un compiaciuto ed ammiccante sdoppiamento di personalità che innesca così una doppia finzione teatrale, i bambini attori giocano a “genitori e figli”, la madre Milena (Valentina Banci), il padre Vojin (Mauro Malinverno) ed il figlio Andrija (Francesco Borchi). Il quadretto quasi da sogno americano che appare improvvisamente all’interno di un container, posto sulla destra della scenografia, evoca il contrario di quello che traspare dai sorrisi stampati a dimensione di gigantografia sulle facce degli attori.

I veri genitori infatti non ci sono mai, né fanno la loro comparsa, anche fugace, in scena: assenti, negligenti, oppure soltanto un’idea dell’immaginario collettivo? Nel gioco della famiglia i bambini si fanno portavoce di un “modello” familiare, che reca le caratteristiche di una società maschia, dittatoriale, in cui per sillogismo aristotelico nascere donna, ovvero debole per natura, equivale ad essere incapace di intendere e di volere e quindi priva di potere decisionale e di opinione. Chi ti ha autorizzato a pensare? Il gioco della famiglia in cui i genitori sono una banda di capitani di ventura e i figli sono posseduti da istinti omicidi, si allarga fino a comprendere l’intera società, in cui fa da padrone un ipse dixit sovrastante e claustrofobico. Benché non sia chiaro il luogo in cui lo spettacolo è ambientato, è immediatamente percepibile l’idea sociale di un regime che imbriglia anche i soggetti più rivoluzionari, sopendo qualsiasi ragionamento filosofico basato sul cartesiano cogito ergo sum. Vietato pensare quindi: testa nella sabbia e culo al muro.

Come si dice in inglese “guerra”? Nell’alternanza di diversi prototipi familiari emerge lo spaccato di una guerra, quella di Belgrado. La guerra vista dagli occhi dei bambini, definitivamente conclusa, come avrebbe detto Cesare Pavese, soltanto per i morti. Ma non per i vivi. Per loro rivive infatti nell’allucinazione delirante dei bombardamenti e dei racconti di famiglie lacerate dalle bombe e dalle stragi. Qui non c’è più speranza. Nell’ultimo vano tentativo di tenere unita una famiglia che ha falle ovunque, si verifica lo strappo. La partenza del figlio Andrija da tutto e da tutti, anche da Nadezda (Elisa Cecilia Langone), la bambina muta che nel gioco fa la parte del cane.

Ormai non c’è più niente per cui valga la pena di vivere ancora nel paese. La guerra e la conseguente crisi hanno tolto la speranza di vivere ed hanno lasciato un vuoto di ideali, riempito soltanto da forme di violenza gratuita ed esasperata. Con un discorso moderno che potrebbe essere esteso anche all’Italia di oggi, si spacca la famiglia. I bambini si comportano da grandi: Andrija parte e i genitori, come se avessero predisposto quel piano da tempo, muoiono a turno. Rimane solo la bambina muta che per la prima volta prende la parola in quel paese che non è per giovani e nemmeno per vecchi.

 In scena al Teatro Fabbricone di Prato fino al 24 novembre 2013

Giochi di famiglia

di Biljana Srbljanovic

traduzione Paolo Magelli

drammaturgia Željka Udovičić

scene Lorenzo Banci

progetto luci Roberto Innocenti

costumi Leo Kulaš

musiche Arturo Annecchino

assistente alla regia Giulia Barni

assistente alle scene Federico Biancalani

 

con la Compagnia Stabile del Teatro Metastasio:

Milena Valentina Banci

Vojin Mauro Malinverno

Andrija Francesco Borchi

Nadezda Elisa Cecilia Langone

un operaio Fabio Mascagni

 

regia Paolo Magelli

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