Recensioni — 21/03/2022 at 09:17

È finito il moderno, Beckett finalmente è un classico

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RUMOR(S)CENA – PRATO – La verità è che proviamo diffidenza nei confronti di Beckett. Esistono Amleti con la giacca di pelle ma se si aspetta Godot il cappellaccio è sempre quello; mentre al contrario certi Giorni Felici sono annegati nella musica e riempiti di trovate stroboscopiche. L’ortodossia, così come la licenza con cui trattiamo Beckett, la parola “Assurdo” che sempre ci balla sulla lingua parlando del suo teatro e l’ostinazione nell’attribuirgli una capacità deflagrante che è puro sollazzo dei pedanti e fonte di perplessità per i profani, sono le prove di quanto ancora oggi stentiamo a riconoscerci in lui.

La verità è che ormai viviamo immersi in un oceano fatto proprio di quei correlativi oggettivi che Beckett sperimentava come elementi formali: noi agiamo e parliamo come i personaggi di Beckett, eppure continuiamo a maneggiarli come assurdi, fuori dal tempo e dalla logica, alla ricerca di un’universalità del tutto iperuranica. Dimentichiamo volentieri che mentre i suoi testi venivano messi in scena, al di fuori delle mura del teatro gli uomini e le donne parlavano, vestivano e si comportavano nella determinata maniera in cui si parlava, si vestiva e ci si comportava nella porzione di tempo in cui quei testi furono scritti, e che anche questo finiva nel teatro di Beckett.

Non sappiamo riconoscere l’assurdo dal circostanziale, vogliamo perderci in Beckett senza andare in profondità. Beninteso, non è cosa facile, come non c’è niente di facile nel suo teatro e, tanto per dirla “con il vecchio stile”, prima lo si capisce meglio è. Lo ha capito Massimiliano Civica, che nella prima nazionale del suo Giorni Felici al Teatro Metastasio di Prato ha dato prova di come certe accelerazioni e forzature possano esser superate, restituendoci un Beckett liberatorio, spogliato della sua esosa etichetta modernistica e finalmente affrontato come un classico, nel senso bello e vivo del termine. La traduzione è sempre quella di Fruttero, sobriamente rimodulata e interpretata con cura, lungo un incedere che si attiene ai tempi fissati dall’autore ma che contiene un ragionamento originale che non ha bisogno di scalfire il tessuto drammaturgico per ricavarsi zone abitabili.

L’impressione è che Civica ben conosca la mappatura spazio temporale di Giorni Felici e tutto lo spettacolo abbia una propria misura dei rapporti di figliolanza tra quegli avvenimenti che in altri contesti vengono liquidati come microscopici, o peggio inesistenti, ma che invece abitano il testo con la frenesia di un formicaio. L’allestimento scenico di Roberto Abbiati risponde perfettamente a questa scelta: il cumulo di arida pietra che imprigiona Winnie è un cumulo di arida pietra, punto. Ma l’elemento cardine della scenografia risulta di un’ efficacia implacabile sia in proporzioni, se rapportato con la figura della protagonista, sia per percorribilità spaziale quando lo stesso Abbiati nel ruolo di Willie vi accenna un’interazione.

Niente salta all’occhio o gigioneggia visivamente con lo spettatore, l’oggetto teatrale sta nel palco come se lo tenessimo nel palmo della mano per osservarlo. E là tutto accade: le piccole azioni scandite dai vari oggetti estratti dalla borsa di Winnie con la tensione narrativa del loro apparire. La pistola che sta a portata di mano e che poi viene spostata, pericolosamente in equilibrio su ciò che ancora non è ma che potrebbe essere. Perfetta abitante di questa tensione, di questa molteplice indeterminatezza è la Winnie di Monica Demuru, lontana anni luce da sfumature cabarettistiche o languide amarezze che cautelino col superfluo la femminilità del suo personaggio. Nella sua interpretazione si rispecchia la cifra dello spettacolo: una tenuta espressiva costante, l’appartenenza a un registro dettagliato del quale si riconosce la vastità soltanto strizzando gli occhi, ma che è fattiva, solida e sulla quale si può costruire un crescendo.

I gesti, i rimandi simbolici, Monica Demuru riesce a rendere credibili tanto le cose che avvengono davanti ai nostri occhi, quanto l’aneddotica con cui Winnie costruisce un passato che paradossalmente non viene prima, ma attorno al momento. Ancora una volta non c’è niente di facile, nulla che consoli col baluginio di un approdo intermedio. Passati i tempi in cui Beckett era sensazionale, esplosivo, nuovo, rimane solo la sua grandezza e la bravura di Civica, Abbiati e Demuru nel frequentarla. Nel loro Giorni Felici vengono messi in moto quei meccanismi evocativi ideati da Samuel Beckett, ma nel vederli in azione, scevri da ogni velleità, la vera sorpresa è quanto possa essere variabile il loro risultato. I temi del testo ci sono tutti, la drammatica dolcezza dell’amore anche quando è abitudine, il vuoto di prospettive e desideri che è la condanna dei rapporti nell’era capitalistica, ma ciò che Civica riesce a regalarci è lo spettacolo della creazione di un tempo, di un percorso in cui l’alternarsi dei correlativi oggettivi si fa storia, narrazione vera e propria. Un Beckett libero da forzati modernismi e da ogni nostra diffidenza, finalmente difficile e di una bellezza implacabile.

Visto al Teatro Metastasio di Prato il 18 marzo 2022

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