Teatro, Teatrorecensione — 20/10/2013 at 16:37

Un esito corale e sincero per ‘Invidiatemi’ di Tindaro Granata al Teatro Morelli di Cosenza

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Quando un attore si trasforma completamente sul palco, prendendo volto, voce, sembianze perfino tic e inflessioni caratteriali del suo personaggio, lasciando altrove – nella ‘profanità’ fuori dal palco – se stesso, l’odore di razza, si avverte per tutto il teatro. Fino agli ultimi posti, dove si scorge poco la mimica, le espressioni facciali sono impercettibili, il gesto arriva come in fotogramma. Solo il roboare della voce naturale, benché artefatta, lanciata senza artifici tecnologici,di puro mestiere.

Di attori sul palco del Teatro Morelli di  Cosenza, per tradizione il teatro del popolo, all’ombra dell’elitario (e lirico) Teatro Alfonso Rendano, nello spettacolo ‘Invidiatemi come io ho invidiato voi’ di Tindaro Granata, ce ne sono stati sette. Caratteristiche diverse, in primis di aderenza al ruolo, alla parte, ma diverse di formazione, peculiarità, timbrica, scuola, maniera. Assottigliando il metodo stantio di competere sul palco, come non ci fossero protagonisti, mattatori, o divine. Gerarchie vecchie come il cucco – come incartapecorito il concetto stesso di gerarchia in tutte le direzioni – utili solo a perorare cause individuali, di vetrina.

Quando si dice un lavoro corale, in altre parole. E si è sinceri col pubblico. Sinceri come lo si può essere nella finzione, nell’artificio teatrale. Finti ma sinceri. Teatrale, nello spettacolo, a discapito delle concezioni sull’assenza di verosimiglianza, è lo stare per quasi tutto il tempo della scena in proscenio rivolti al pubblico, o a quel punto di osservazione al di là delle poltrone… teatrale è il gesto mai didascalico o canalizzante, piuttosto una sottolineatura, un volere indicare anche altro chiamando in causa la prossemica, volere svelare. Squisito gioco psicologico in un contesto ‘costruito’, personaggi che si mascherano loro stessi e si tradiscono con i loro gesti inconsapevoli, dettati dal corpo, sotto la maschera… teatrale è la partitura drammaturgia, prosaica, post-drammatica, ma anche di maniera.

Quella ‘merce’ da bottega di teatro, o meglio, da stare ‘a bottega’ a teatro, liberati dalla vischiosità accademica (Granata non ha formazione accademica) e dai formalismi dell’approssimativo, di voga di questi tempi col dilagare del commerciale-televisivo. Il lavoro a costruzione di scene, dialoghi, monologhi, resoconti, battute, slang, è certosino, pratico, di chi quei linguaggi li conosce a memoria perché li ha masticati toccandoli con mano, non li ha studiati sui libri… Innestando codici contemporanei, anche pop, mai straboccanti verso poetiche o iconografie di moda.

La scena si presenta quasi scarna, fatta eccezione per un piccolo televisorino diviso dal mobile dove poggia da un centrino di pizzo, di quelli presenti in ogni casa meridionale che si rispetti, fatti a mano magari, segno di decoro, di gentilizia. Dalla graticcia, penzolanti a due palmi dalle tavole, due paia di porte, che somigliano anche a finestre, sospese, a mezz’aria, mezze rotte. Come a voler dire delle rovina racchiuse nelle mura domestiche, nelle famiglie, nella comunità. Dal principio, il nucleo, la cellula (la famiglia) alla ‘societas’ (cellula sotto la lente d’ingrandimento). Ritornando sull’individuo, sull’uomo, batterio, germe, infettante per accidia (il caso del marito, padre di famiglia), per mostruosità (il carnefice pedofilo), per voyeurismo invadente (la vicina di casa), per cafonaggine pericolosa (la sorellastra del paterfamilias), per convenzione (la suocera), per vuotezza di pensiero e di azione (Angela). E l’invidia di desiderare quello che manca.

Ma non si riesce ad odiare questi personaggi, tutti conniventi, quando non direttamente coinvolti, nella sconvolgente vicenda corpus dello spettacolo. La morte di una piccola per emorragia dopo le sevizie dell’amante della madre. Tindaro Granata seppe della vicenda, realmente accaduta a Perugia nel 2003, dalla televisione. Nel chiuso della sua stanza, guardando ‘Un giorno in pretura’. E la drammaturgia, il modo di stare in scena degli attori, ricalca lo stile da inchiesta o da inquisitoria giudiziaria. Ricalca il format del programma: il televisore sul palco è prima feticcio, sfondo, anello di congiunzione e mediazione col reale, e quasi un deus ex machina dopo, nel finale.

Il responso è agghiacciante. Al di là del gradimento o la riluttanza alla tematica, affrontata in modo profondo e delicato, lo spettacolo affonda in platea. Per via anche del contatto diretto con questa. Un entrare e uscire ripetuto ‘dalla società civile’, comodamente sulle poltrone. Chiave: in una scena Angela (Mariangela Granelli), la madre, scende a ridosso delle prime file e si trucca specchiandosi negli spettatori… In situazioni come queste, si sente l’odore della razza. Dell’attore di razza.

“Invidiatemi come io ho invidiato voi”

Testo e regia di Tindaro Granata

Scene e costumi di Eliana Borgonovo. Luci di Matteo Crespi. Musiche di Marcello Gori. Con Tindaro Granata, Mariangela Granelli, Paolo Li Volsi, Bianca Pesce, Francesca Porrini, Giorgia Senesi. Prod. BIBOteatro, Meda – Proxima Res, Milano, Festival delle Colline Torinesi

(crediti fotografici di Angelo Maggio)

Visto  al Teatro Morelli di Cosenza il 18 ottobre 2013 nell’ambito della rassegna More Fridays a cura di Scena Verticale, Cosenza.

 

 

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