Recensioni — 19/01/2023 at 13:47

Revolutionary Road: un apologo sulle improbabili velleità di una coppia apparentemente felice

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RUMOR(S)CENA – MILANO – Il romanzo Revolutionary Road di Richard Yates, pubblicato nel 1961, è ambientato negli Stati Uniti durante gli anni Cinquanta. Ma più di una generazione, fino ai giorni nostri, non faticherebbe a riconoscersi nelle dinamiche psicologiche (e anche in certe patetiche velleità) della coppia April e Frank – anche senza la tragica conclusione immaginata dall’autore. Un testo duro e inquietante, la cui validità trascende il momento storico e l’ambiente, tipicamente americano, anche grazie alla felice rielaborazione drammaturgica di Renato Gabrielli, cui ha contribuito l’intera compagnia degli Eccentrici Dadarò, diretti da Fabrizio Visconti. Da ricordare, peraltro, che il libro ha avuto anche una edizione cinematografica per la regia di Sam Mendes e la partecipazione di Kate Winslet e di Leonardo Di Caprio.

Ma al di là del messaggio etico sotteso al testo: cioè la denuncia di un’attitudine a mascherare con un’apparenza di comodo una realtà che non si ha la capacità – o il coraggio – di riconoscere, parecchi sono gli elementi dello spettacolo che vale la pena di citare. Intanto una certa originalità della struttura drammaturgica, che affianca ai due protagonisti un narratore esterno: una sorta di personaggio coro che introduce i protagonisti e commenta la vicenda, ma che entrerà anche nell’azione, interloquendo con essi, ed  impersonando anche il ruolo di un alienato, in licenza dal ricovero in manicomio, che ha qui la funzione – quasi una versione contemporanea del fool shakespeariano (o dello jurodivyj della tradizione russa) – di spiattellare con sconcertante lucidità ciò che le convenzioni della buona società prescriverebbero di tenere per sé.

Ma anche nella scenografia, improntata a un apparente realismo (due maestose poltrone rosse di pelle, anni Cinquanta, che ancorano la vicenda allo stile di interni in voga nel periodo in cui è ambientata), si evidenzia un’unghiata d’autore, l’ottimo Marco Muzzolon, nel disegno di quelli che sembrerebbero un paio di scatoloni di cartone, di quelli in cui si ammucchiano gli oggetti per un trasloco, e che spesso rimangono a ingombrare le stanze. Ma, a osservarli con un minimo di attenzione, ci si accorge che hanno una forma improbabile, come certe figure nate dalla fantasia di Esher, o le architetture sghembe tipiche dell’espressionismo tedesco, come quelle del Gabinetto del dottor Calegari. Una scelta iconica coerente con una storia in cui nulla è come appare, ma tutto si direbbe dominato da una confusione (termine che risuona parecchie volte) di volontà e di sentimenti.

Tutti e tre gli interpreti si prodigano senza risparmio per dare un senso logico e teatralmente conseguente a uno spettacolo caratterizzato da continui scarti, a un testo cosparso di sabbie mobili, fra le quali sanno muoversi con sicurezza: Stefano Annoni, un Frank ambiguo nella sua falsa e impotente sicurezza di maschio medio americano; Daniele Gaggianesi, presenza multiuso che sa continuamente entrare e uscire dall’azione, ed è anche un credibile John, il savio folle; una splendida Rossella Rapisarda, efficacissima nella modulazione vocale e gestuale di un personaggio appassionato quanto ondivago nelle sue generose, ma maldestre scelte progettuali. Un’attrice di notevole spessore professionale, che ha conseguito prestigiosi riconoscimenti, ma che non mi sembra abbia ancora la visibilità che meriterebbe.

                       

Visto al Teatro Litta di Milano il 12 dicembre 2023

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