Recensioni — 17/02/2018 at 23:10

Una Bisbetica in “green screen” nella farsa brillante di Andrea Chiodi

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MILANO – Dal 7 al 18 febbraio 2018 al Teatro Carcano di Milano “La Bisbetica Domata” di William Shakespeare secondo la drammaturga Angela Dematté, che ne cura, qui, adattamento e traduzione, e per la regia di Andrea Chiodi. Squadra che vince non si cambia. Così, inaugurata, col primo attore Tindaro Granata, quella modalità di restituzione di un classico fedele nella forma esteriore ma intimamente aggiornata nel sottotesto, all’impeccabile “La Locandiera” fa seguito quest’altra avventura shakespeariana a sugellare un rapporto di continuità col Centro d’Arte Contemporanea, che se ne assume l’onere di co-produzione assieme a LuganoInScena. Ancora una volta un classico, ma con brio com’è nella programmazione del Carcano, nel cui cartellone compaiono diverse pièces dal sapore classico – da Shakespeare a Molière, da Eduardo ed Aristofane -, spesso tradotte in stile brillante come nella consolidata presenza delle commedie di Jurj Ferrini (di cui ricordiamo “La Mandragola” e che fra un mese tornerà in scena con “Dio Pluto” di Aristofane, questa volta).

 

E così fa Chiodi, che, chiamata a raccolta una squadra tutta al maschile – secondo quella façon tipicamente elisabettiana –, ingaggia attori quali Tindaro Granata, Angelo Di Genio, Christian La Rosa, Igor Horvat, Rocco Schira, Max Zampetti, Walter Rizzuto e Ugo Fiore quasi players di uno di quegli sport per soli uomini, tanto in voga a latitudini più consonamente anglosassoni. Eppure, prima, non omette di ricordarci che è tutta una farsa: così già Shakespeare, di cui giustamente porta in scena anche quel prologo e lo speculare epilogo, sovente omessi nelle riduzioni contemporanee, ma che danno tutt’un altro respiro ai fatti. Già, perché è diverso raccontare la storia della Bisbetica alfin domata come storia a sé o come cammeo incastonato in un racconto-burla, con cui buggerare l’ubriacone del villaggio, a cui si sia fatto credere di essere in realtà un gran signore.

È prolessi di quel teatro nel teatro che normalmente attribuiamo a Pirandello – per poi scoprire che fu frequentato già da Goldoni, come ci mostrerà “Il Teatro Comico” di Roberto Latini fra pochi giorni al debutto al Piccolo Teatro Grassi-; è frequentazione di quello spazio meta-razionale – che sia sogno o follia, poco conta come il “Freud o l’interpretazione dei sogni” di Massini/Tiezzi ancora in scena a Milano insegna -, additato come dimensione di libertà proprio da Pirandello, ne “Il berretto a sonagli”, ad esempio, ma anche da tutta quella letteratura – Calderon e non lui solo -, che intendeva parlare di una realtà, che, per varie ragioni, non poteva essere presa di petto. Dopo un’ouverture manieristica e come sempre elegantemente curata sia nei dettagli, che nei rimandi simbolici – non a caso, la violinista-spirito del tempo, è una volpe nella doppia valenza di preda, ma non necessariamente vittima, stante la sua proverbiale furbizia, che, qui, si fa quasi volontaria intrattenitrice dei trastulli dei signori in un ambiguo gioco anticipatorio di poliedriche ambivalenze -, di petto, invece, Andrea Chiodi prende la narrazione dei commedianti girovaghi, topos shakespeariano che ritroviamo anche in “Amleto” o nel “Sogno di una notte di mezz’estate”.

Lo trasforma in un’energica ed energizzante baruffa da spogliatoi, che però forse perde in empatia, quel che guadagna in energia. Sono quelli i segni scenici: l’ammiccare pop dallo sleng giovanilistico dei rampolli in cerca di sistemazione, il vigore spavaldo di quell’età, che, specie nella fase dell’ordito, nel primo tempo, li fa piroettare per il palco come assatanati e adrenalinici dalla sfida dell’impresa, e quegli spalti continuamente trascinati dentro e fuori dalla scena, con uno slancio infaticabile, come instancabile è l’energia con cui senza posa salgono e scendono dalle strutture metalliche a significare non solo la sete di riconoscimento, ma anche quel fazionismo tipico della giovane età.

 

Sì, ma poi si fa presto a capire che duri e puri non sempre conviene. Così Gremio ed Ortensio, i due pretendenti della bella Bianca, preferiscono concedersi una tregua per allearsi nella doppia impresa sia di cercare un marito per la Bisbetica Caterina – primogenita del gentiluomo padovano Battista Minola padre di Bianca, che ha subordinato le nozze della figlia cadetta a quelle della maggiore -, sia in quella di trovare un éscamotage per poter frequentare da vicino l’amata contesa, tanto più dopo la comparsa del pisano Lucenzio, riuscito ad intrufolarsi a casa Minola con la scusa del precettorato.

La forza delle regie di Chiodi è in quell’eleganza formale, capace anche di diventare espressione veicolatrice di sottotesti. Così, a scomporlo, tutto ha una sua valenza simbolica ben precisa. I costumi – d’epoca, rigorosamente in nero elisabettiano – mostrano vistose applicazioni di numeri in paillettes a significare il gioco (baseball?), ma anche la valenza di farsa; solo in pochissime eccezioni si delega a quest’uniformità come nel caso del celeste-verdognolo che veste l’angelicata Bianca (sintomatico che, fin da principio, Lucenzio nel suo travestimento per entrare a casa Manolo scelga d’indossare una parrucca di quello stesso colore e che si proponga come maestro di musica: chissà, che, in verità, non sia Bianca e non Caterina la vera volpe che suona, in ouverture, accompagnando l’inganno) o gli abiti inconsueti della irriverente Bisbetica, che ostenta una maglietta con una scritta da teen ager, nella prima parte, e vistosissime calze scarlatte, che irriverentemente mostra ad ogni occasione. Ma è una trasformazione, la sua – lenta, inesorabile -, che la vede esordire quasi come quel paggio atteggiato a dama facente parte dello scherzo tirato all’ubriacone, per trasformarsi sempre più non solo in moglie sottomessa, ma, addirittura devota al punto da diventar modello di obbedienza per le altre spose. Illuminante è quella scena che va sotto il nome di “seduzione”, ma che, mazza da baseball alla mano, dice già di come, per quanto bisbetica, non potrà che essere domata da un sistema maschilista e prevaricatore, che, forte di una supremazia effettiva e una superiorità fisica ma anche socio-economica, potrà scegliere di praticare una violenza psicologica, piuttosto che ostentare la forza bruta, ma, certo, finirà con l’avere la meglio. Così a nulla le serve ostentare un temperamento insopportabile.

Sarà comunque domata: e nel modo peggiore. Non sono infatti tanto le lusinghe del bellimbusto che gioca a chiamarla Cate, inventando assonanze e giochi di parole, nelle scaramucce amorose, a trasformarla in quella “mite”, che, sapendo i mentire, dice che lei è; quel che la spezzerà saranno le umiliazioni e le privazioni – la fame, il sonno -, che la porteranno all’abiura più totale: “I miei occhi sono così abbagliati dalla luce del… sole – prova ad azzardare lei, di fronte a quel marito che continuamente cambia il sole con la luna, pretendendo il consenso della moglie a ogni suo capriccio – che tutto quello che vedo sembra verde”. Già, e all’improvviso, risuona qualcosa anche nello spettatore, che fino a quel momento ha effettivamente visto verde. Questo è il colore dominante, su cui tutto si staglia. Ma una particolare tinta veronese, che forse dice fin da subito che la vittoria sarebbe venuta da fuori. Petruccio domatore non a caso viene da Verona, così come straniero, in fondo, è colui che vincerà il cuore e la mano della bella Bianca.

Ma quel colore dice anche green screen, così si chiama in gergo il chroma key, ossia quell’illuminazione usata nel montaggio per mixare due differenti fonti d’immagine. Come a costante memento che ci muoviamo fra più piani: la messa in scena dei comici e la burla, il teatro e la realtà, un passato di prevaricazione femminile, che non racconta del gioioso ribaltamento di una bisbetica al fin caduta sotto gli strali di Cupido, ma che forse strizza l’occhio a una liberalizzazione contemporanea solo apparentemente tale.  E chissà che non venga da fuori la chiave del cambiamento: di certo anche questo è tema caldo della contemporaneità, che ha sempre più a che fare, sotto sempre più variegati aspetti e punti i vista, con un diverso sempre più variegato e sempre meno conformabile. Peccato che, di tutto questo, ai generosi e instancabili attori, sia stato chiesto di offrirne traccia solo superficiale, nel ritmo brillante di una farsa, nonostante sé.

Visto al Teatro Carcano di Milano, il 14 febbraio 2018.

 

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