Costume e Società, Culture, Pensieri critici — 16/04/2018 at 18:44

A Cagliari la “psichiatria riluttante” discute dell’evoluzione della malattia mentale

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CAGLIARI – Viaggio nella follia – fra terapie improbabili e l’illuminante visione di Franco Basaglia con la “Trilogia della riluttanza: duplice rapina poetica e fuga a gambe levate dagli orrori dell’ideologia psichiatrica”, questo in sintesi l’argomento della conferenza che si è svolta lo scorso martedì 10 aprile al Teatro Massimo di Cagliari e l’11 aprile al Palazzo Ducale di Sassari, preludio al reading “Interiezioni”, omaggio al genio di Antonin Artaud, per un’intrigante anteprima del Festival Letterario Éntula firmato Lìberos.

Sotto i riflettori – nella sala M2 – (dopo una breve introduzione della dottoressa Gisella Trincas e alcuni interessanti interventi e testimonianze sulle avanguardie nell’Isola dell’auspicata riforma psichiatrica), Piero Cipriano, lo “psichiatra riluttante” e Pierpaolo Capovilla, fondatore degli One Dimensional Man e de Il Teatro degli Orrori, hanno dato vita ad un dialogo o meglio un concerto a due voci, in un felice contrappunto tra lettura e narrazione intorno ai tre libri – “La società dei devianti”, “La fabbrica della cura mentale” e “Il manicomio chimico” in cui il medico e scrittore, costretto a fare il “giudice dei matti” per professione, ricostruisce la nascita e le successive evoluzioni dell’idea della malattia mentale.

 

 

Piero Cipriano (foto di Alessandro Cani)

Un’interessante storia della follia – dal “De morbo sacro” di Ippocrate con la teoria dei quattro umori e la predominanza della bile nera – all’intuizione del medico francese Philippe Pinel, che nel Settecento riconobbe i sintomi del disagio psichico e, in quanto fautore dell’isolamento e di pratiche terapeutiche atte a provocare uno choc “salutare”, può essere considerato l’inventore dei moderni manicomi. Se l’intento era di proteggere i “malati” dalla crudeltà del mondo la conseguenza fu spesso un internamento a vita, mentre i trattamenti indicati per la “cura” rasentavano la tortura – dalle docce ghiacciate alla contenzione fisica, alla somministrazione di sostanze stupefacenti – fino all’ipnosi di Jean-Martin Charcot, senza dimenticare la lobotomia e l’elettroshock.

La rivoluzione culturale innescata da Franco Basaglia a metà del Novecento non ha scardinato – neppure in Italia – i principi fondanti della diagnosi e della cura delle malattie mentali – al contrario come si intuisce dalle successive edizioni del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM) la psichiatria stessa è diventata “iatrogena” con l’effetto di includere tra i malati mentali metà della popolazione degli Stati Uniti d’America – e non perché «hanno votato Trump» come ricorda Cipriano, stemperando con una battuta la drammaticità del presente. La moderna “civiltà del benessere” identifica la “salute mentale” con la “felicità” – così che pure l’elaborazione del lutto può facilmente trasformarsi in “depressione” (se la malinconia e il rimpianto durano “troppo”) e la povertà intesa come condizione materiale di quanti non dispongono di beni e ricchezza diventa una malattia.

La “trilogia della riluttanza” di Piero Cipriano traccia un quadro sconcertante e sconfortante sullo stato dell’arte della psichiatria alle soglie del terzo millennio – da “La fabbrica della cura mentale”; dove dimostra come il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura, rappresenti una sorta di “catena di montaggio” a “ Il manicomio chimico”, che sulla falsariga del libro di Robert Whitaker: “Indagine su un’epidemia”, racconta l’affermarsi della psichiatria “farmacologica”, grazie alla scoperta (casuale) di farmaci, come «la clorpromazina per i malati agitati, aggressivi, maniacali, psicotici; il clordiazepossido per gli ansiosi e l’iproniazide per i depressi… prescritti secondo il criterio che ancor oggi regola la prescrizione degli psicofarmaci: ex adiuvantibus. Secondo giovamento», fino al diffondersi dell’“uso cosmetico del farmaco”; e infine “La società dei devianti” in cui il destino di chi non sa “stare al mondo” e adeguarsi alle sue regole, è suo malgrado quello di essere inserito nel sistema produttivo attraverso «l’imprenditoria della salute, della malattia e della follia».

 

Nel mettere a nudo il meccanismo complesso del Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura, Cipriano scrive: «Il manicomio ricordava un campo di concentramento, il SPDC ricorda una fabbrica. Il che è un passo avanti… Il SPDC è meglio del manicomio. Però guardiamo da vicino, trent’anni dopo la Legge 180, come viene ricoverato nella gran parte dei SPDC d’Italia, un malato con crisi mentale acuta. Come inizia la sua carriera di malato di mente. Come, anche se il manicomio non c’è più, il malato viene ugualmente ridotto a cosa, a un corpo rotto». E’ necessario ripensare il sistema, riportare al centro la persona affinché la sofferenza mentale sia non percepita, occasionalmente, come un’emergenza da una società incapace di prendersi cura di individui, rigettati come “corpi estranei”, privilegiando invece esempi come i CSM triestini, che ospitano i pazienti in luoghi aperti, basati sulla relazione e non sull’internamento coatto, e il modello di cura Soteria, ideato dallo psichiatra americano Loren Mosher, dove individui affetti da primi episodi di psicosi senza “etichetta nosografica” vengono ospitati in una casa, in piccoli gruppi con operatori scelti in base alla loro empatia e disponibilità.

 

 

Pierpaolo Capovilla (foto di Dietrich Steinmetz)

Una provocazione intellettuale – e artistica – per una serata intensa ed emozionante culminata – come da programma – con “Interiezioni” – in cui le parole di Antonin Artaud (vittima e simbolo suo malgrado degli orrori psichiatrici), interpretate dal cantautore e attore Pierpaolo Capovilla, si intrecciano alla suggestiva colonna sonora creata dal vivo dal musicista e compositore veneziano Paki Zennaro. Focus sul testo di “Succubi e supplizi” – scritto nel manicomio di Rodez dal poeta e drammaturgo francese – o meglio dettato nei primi mesi del 1946 – , ad una segretaria messa a disposizione dall’editore Louis Broder (che però per “motivi religiosi” preferì non pubblicare l’opera, uscita solo nel 1978, con il quattordicesimo volume delle “Œuvres complètes” per Gallimard) in un raro esempio di “scrittura orale” visionaria e folgorante. Una performance avvincente in bilico tra la mimesi e l’estasi, un lucido, meraviglioso delirio sulfureo e carnale, come un flusso inarrestabile di coscienza, una fusione di anima e corpo, una sublimazione del dolore fino all’estrema catarsi, tra morte e resurrezione, che tocca e fa vibrare le corde segrete della mente e del cuore.

Succubi e supplizi” – nato fra le mura di un manicomio – è un poema sconvolgente e feroce, cronaca di un viaggio agli inferi tra il rito sacrificale degli elettroshock e le libere associazioni di pensiero di un prigioniero, frutto di anni di internamento e terapie (durante i quali l’autore poté saltuariamente dedicarsi anche ad esperimenti artistici fra disegno e pittura creando le sue glossolalie e gris-gris, ovvero amuleti “pour en revenr à l’homme”) culminanti in una tragica e paradossale, estrema incarnazione del Teatro della Crudeltà – «rituale e magico» – che «è la vita stessa in ciò che ha di irrappresentabile».

 

 

 

foto di Alessandro Cani

 

 

 

 

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