Chi fa teatro, Teatro, Teatrorecensione — 13/12/2013 at 00:06

Impegno civile, rivoluzione e immaginazione: riflessioni sul Premio Scenario 2013

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Nel blindatissimo panorama dei circuiti teatrali italiani, che girano in tondo su se stessi, un po’ incastrati, spesso loro malgrado, nella politica degli scambi a ogni livello, dagli Stabili agli spazi indipendenti ai Festival, il Premio Scenario rappresenta, per tanti artisti under 35, uno dei pochi grimaldelli rimasti, forse quello meglio oliato, per forzare le porte delle programmazioni teatrali e portare il proprio lavoro di fronte a un pubblico più vasto.

Saltate a piè pari le riflessioni di rito sulle virtù di un premio consolidato che ha già alle spalle una lunga storia di successi e di prestigio accumulato negli anni, e il riassunto delle aspettative generate dalle precedenti tappe del percorso, si puntano subito gli occhi sulla Generazione Scenario 2013, andata in scena al Teatro Franco Parenti di Milano, il 7 e l’8 dicembre, con il debutto delle versioni complete degli spettacoli vincitori e segnalati. Vedere i quattro spettacoli nella stessa serata aiuta a riconoscere immediatamente quel filo rosso, dichiarato, che tiene insieme tutti e quattro i lavori, intrecciandoli in un dialogo degno di una rassegna in piena regola, fatto insolito, fisiologicamente, per la presentazione degli esiti di un premio.

 

Treno fermo a-Katzelmacher della compagnia nO (Dance first. Think later) (Segnalazione speciale)

Treno fermo a-Katezelmacher. Foto di Flavio Boretti

 

Le tende scacciamosche di plastica colorata, l’ombrellone da spiaggia, il frigo dei gelati Sammontana, il bigliardino a cui è vietato “rollare”, la lattina di Coca-Cola che fa da pallone improvvisato. Siamo di fronte a una bottega di paese che vende gelati, sigarette e giocattoli, incastrata tra l’ammasso di lamiere deformate da stratificazioni di manifesti elettorali e locandine kitsch del circo, sempre fresche. Che si sa, il circo è l’unica forma d’arte che attecchisce nelle terre più sperdute del profondo Sud.
Quale Sud, per l’esattezza, non è importante.
“Me l’ho dimenticato dove siamo”, dice Pasqualino Vitasnella, in un rigurgito di esistenzialismo naif.   “O’bbar”, risponde un altro.

Un luogo vale l’altro in questa specie di Sud imprecisato e addensato, in questa striscia di terra che collega Napoli alla Sicilia nello spazio di una piazzetta. Un luogo senza nome, attraversato periodicamente da un treno che annuncia le non-fermate che effettuerà, dove nove giovani vivono sospesi, come drogati, anestetizzati, letteralmente atrofizzati. Senza neppure aspettare Godot. Anime in pena senza passato, che non si capisce da dove provengano e dove siano dirette, senza una storia da raccontare né un obiettivo da raggiungere. Appagate in un giro di relazioni da manuale di soap opera da tv locale. Nel cast le due amiche del cuore, la ragazza velina del gullo di paese, il fratello maggiore iperprotettivo con la sorella imbranata, e la fidanzata perduta per cui si spasima che, se siamo a Napoli, si chiama necessariamente Annamaria.

Vite informi e scontornate capaci, però, di farsi ammasso compatto per respingere con forza l’arrivo di uno straniero imprecisato che parla francese eppure non si capisce se sia rumeno marocchino o ucraino, o forse ebro turco, perché tanto nell’immaginario di chi non ha immaginazione le cose si assomigliano un po’ tutte e i dettagli sfumano e si perdono.

La trama si sviluppa sui temi un po’ triti dell’amore omosessuale, della cacciata dello straniero, del rifiuto delle diversità, attraverso l’alternanza di momenti improntati al realismo ad altri di stampo più grottesco o simbolico. Nel complesso la drammaturgia è sfrangiata in molti fili che restano sciolti senza consentire una perfetta quadratura del cerchio alla fine. Lo stesso personaggio di Katzelmacher potrebbe essere eliminato senza troppi danni collaterali. Ma poco importa.
Il valore reale dello spettacolo è nello sfondo, è nella capacità di racconta
re un certo Sud degli anni ’90, quello di una tipologia molto particolare di ventenni di oggi.  Non più il Sud contadino, quello che si arroccava, e in un certo senso si giustificava, nell’impasto di tradizioni, religione e buon raccolto. Non il Sud degli artigiani, dei creativi, di chi sa giocare al gioco dell’arrangiarsi con fantasia.  Non il Sud delle mozzarelle, dell’olio d’oliva e dei bambini che giocano per strada.
Questo è il sud dei paesi di provincia ridotti a dormitorio, quelli che hanno allevato una generazione cresciuta nell’ignoranza ma con la televisione commerciale e il computer.  A forza di Mac Donald e reality show. Tra un programma di Maria de Filippi su Canale 5 e il videoclip del neomelodico  di turno sul canale locale. Una fetta di gioventù ancora diversa da quella votata agli Dèi Spritz e Iphone. Completamente tagliata fuori dalle vecchie logiche rurali ma emarginata anche dagli sviluppi (o le degenerazioni) capitalistici e dagli esiti della globalizzazione.

Un popolo invisibile di giovani parcheggiati nelle squallide piazzette di paese, da mattino a sera, che aspettano la festa patronale per svagarsi ai luna park improvvisati, sempre gli stessi, da vent’anni, col tappeto volante, l’autoscontro e il calcinculo. Che passano le vacanze all’acquapark vicino casa.
Che vanno ai matrimoni con i vestiti di taffettà, per mangiare a sbafo e togliersi le scarpe per i balli di gruppo.

La fotografia fornita dalla compagnia è perfetta; a guardarli bene i costumi non sono neanche costumi: sono vestiti fuori moda che abbiamo comprato dieci anni fa. Cinturoni rosa con le borchie, scarpe da ginnastica alte alla caviglia, vestiti di stoffa luccicante, pioggia di strass di plastica e cineseria varia.
Tra canzoni neomelodiche di Maria Nazionale, Gianni Celeste e Ciro Ricci, in una babele di dialetti anch’essi impoveriti, imbastarditi da linguaggio televisivo e grammatica italiana acquisita male, lo spettacolo è una rete fittissima di rimandi e citazioni intelligenti ai dettagli più trash delle realtà provinciali chiamate in causa.

M.E.D.E.A Big Oil del Collettivo Interno Enki (vincitore Premio Scenario per Ustica)

M.E.D.E.A. Big Oil. Foto di Tomaso Mario Bolis

L’operazione del collettivo romano rovescia completamente la prospettiva. Siamo sempre nel Sud. Ma in un Sud specifico, quello della Basilicata martoriata dalle trivellazioni petrolifere.
Un Sud vitale e agreste popolato da donne, dove ci sono ancora pancioni da nascondere, figli di padri scappati o emigrati in Germania, matrimoni riparatori, profumate conserve di pomodoro imbottigliate all’alba, venerdì Santi, comizi della DC, processioni, lamentazioni funebri e tradizioni rassicuranti.

E’ il Sud dell’“ignoranza contadina pura” non contaminata dalla televisione e dalla scuola, quello di alcuni decenni fa, colto nella drammatica fase di passaggio da un’economia prettamente agricola a una progressiva industrializzazione. Una fotografia di quella macellazione identitaria che ha cominciato a consumarsi quando la speculazione petrolifera ha tradito il patto di sviluppo, portando in dote alla terra che l’ha accolta morti bianche e malattia. “Si pensava che col petrolio s’era sistemat. S’è sistemat buon mo’. Int’a na fossa.”

All’improvviso la terra inquinata, i fagioli che seccano, l’aria irrespirabile, il cancro. E la gente che “si stava meglio quando si stava peggio”, ma poi: “Grazie ingegnere!”. La difficoltà di individuare i colpevoli, di riconoscerli e condannarli. Perché nella rincorsa al si salvi chi può, piuttosto che mettersi di traverso ci si affanna pure a riverire i responsabili delle nostre sciagure, a elemosinare un posto di lavoro e chi se ne frega del carcinoma, perché tanto poi non capita a me.

A uccidere i propri figli, allora, prima ancora di Giasone Big Oil, ossia l’ENI, è innanzitutto Medea, figura metaforica che rappresenta quella stessa terra violentata, la quale invece di scacciare lo straniero traditore ammazza la propria prole con silenzio e connivenza. Una terra scarnificata che non si ribella, straziata e logora ma fiera. Debole e quindi ancora più aggressiva, come un animale ferito che non sa riconoscere da che parte stare.

Medea rimprovera Nuccio che vuole andare via a ogni costo: “È na fortuna che ti danno la fatica a casa tua. Ccà simm nati e ccà amma murì”. E d’altro canto dalla platea non si sa più a chi dare ragione, se a chi resta con vigliaccheria (o coraggio) o a chi va con coraggio (o vigliaccheria).

Poche domande: “Nuie pe ‘mmo chiudimme e pumm’dur”. E via di nuovo con le conserve di pomodoro, con il rito di fine estate delle cinque del mattino. Al ritmo regolare del pettegolezzo di paese qualcuno lava i pomodori, qualche altro mette il basilico nei barattoli, qualcuno passa i pomodori, poi l’imbottigliamento e la cottura, pericolosa, perché le bottiglie rischiano sempre di rompersi nei grossi calderoni in cui vengono accatastate.

Come un mantra in tutto lo spettacolo non si fa che ripetere che tanto “è tutt’appost”.  Ogni contraddizione si risolve nel rito dei pomodori, nella processione di paese, nelle luminarie per la festa della Madonna. E nel frattempo il politico di turno distribuisce ostie benedette come “buoni pasto” a una popolazione che ancora crede al ciuccio che vola, immagine perfetta di quel pericoloso impasto di ignoranza religione e potere criminale che ancora vige in certi paesi del Sud, raccontata proprio di recente in un libro (che non è certo il primo) dal magistrato calabrese Nicola Gratteri intitolato Acqua Santissima.

Dal punto di vista formale lo spettacolo funziona bene, ritmato sulla litania del tradizionale lamento funebre, coreografato come un macabro alligalli. Gli attori sono tutti di un livello insolitamente alto. Non ci sono sbavature nella drammaturgia che cuce senza problemi ogni livello messo in campo. A onor del vero bisogna però dire che si tratta di una formula già abbastanza vista sulle scene, collaudata, che non rischia molto e che si garantisce, sebbene in buona fede, una reazione del pubblico un po’ troppo prevedibile.

Mio figlio era come un padre per me dei Fratelli Dalla Via (vincitore Premio Scenario)

Mio figlio era come un padre per me. Foto di Fratelli dalla Via


Dal profondo sud al nord-est.  Anche i Fratelli Dalla Via affondano le mani nella loro terra d’origine e nell’attualità di un territorio che si è visto improvvisamente sgretolare sotto i piedi, insieme a quei pavimenti in legno della Premiata e fallita ditta di cui sono eredi già indebitati i fratelli in scena, l’illusione di un boom industriale senza precedenti, di un benessere economico illimitato. In altri termini di un anacronistico sogno americano che si era pensato realizzabile, seppure in scala ridotta, anche nell’operoso e virtuoso triangolo industriale del Nord Italia.

Ma prima ancora della crisi economica, della mannaia di Equitalia e dei suicidi degli imprenditori in banca rotta, i Dalla Via raccontano le macerie sociali lasciate da un capitalismo sfrenato padre della cultura del consumo e dell’apparenza, in fase di cancrena; il fallimento di una struttura generazionale in cui i figli fanno da padri e viceversa, in cui alle madri tutte d’un pezzo del Sud di cui si diceva prima, si oppongono ex-reginette di bellezza frustrate, mogli trofei di mariti troppo impegnati ad accumulare ricchezza.
In scena dunque due fratelli: una ragazza bulimica vestita da wonder woman pronta per una lezione di aerobica lei, una fotocopia di Marco Mengoni con occhiale colorato fumé, ciuffo e giacca di pelle lui.

Parlano la stessa lingua, si muovono allo stesso modo, e si ingozzano di Boeri, cioccolatini fondenti con ripieno di ciliegia e liquore, che, a pensarci bene, altro non sono che la versione meno light dei Mon Chéri. Figli del fallimento di un progetto grandioso, cresciuti, loro sì, tra X-box e Iphone, nella culla di una ricchezza senza scrupoli, sudditi di una “dittatura del successo mascherata da democrazia”, fedeli al rito dell’aperitivo, ingurgitano Spritz come palliativi, come sostanza stupefacente che li renda ciechi o emotivamente immuni alla disperante visione della società di cui sono parte. Decisi, tutti tesi nella furia dello sforzo produttivo a ogni costo, a “non lasciarsi ingannare dalla realtà”, testardi fino al midollo proprio come i giapponesi che hanno installato specchi nelle stazioni per ridurre il numero dei suicidi.

Progettano l’omicidio dei genitori irresponsabili, talmente irresponsabili da suicidarsi lasciando in eredità ai figli un’impresa fallita e lingotti di polenta. E intentano, in ultima istanza, una class action contro Dio, come padre archetipo.
Non c’è nulla da ridere eppure si ride dall’inizio alla fine in questo spettacolo paradossale. Si ride per la bravura dei due attori, per i tempi comici perfetti, ma soprattutto per l’infilata continua di trovate, quasi tutte linguistiche, arguzie verbali giocate in punta di r moscia, in quel dialetto veneto parlato e insieme scimmiottato. Il vero protagonista dello spettacolo, meritatamente vincitore del premio, è il testo. Originale, tagliente, intelligente, divertente, capace di veicolare il colore acido del grottesco meglio di qualsiasi altra strada scenica tentata.

W (prova di resistenza) di Beatrice Baruffini (segnalazione speciale)

W (prova di resistenza). Foto di Tomaso Mario Bolis

C’è chi usa pedine da Subbuteo, chi pupazzi in carta pesta, chi marionette, per raccontare la Storia con la S maiuscola, comprimendo il grandissimo nel piccolissimo, i campi immensi delle battaglie nello spazio di un tavolo. Beatrice usa mattoni.
Ma nello spettacolo di Beatrice Baruffini, dedicato al racconto della Resistenza parmigiana del 1922, in realtà, c’è un livello doppio di metafora. L’utilizzo di mattoni, come tasselli del puzzle che compone, non è neutrale: non sono utilizzati solo come pedine, ma come materiali di costruzione nella loro specificità oggettuale, per associare alla capacità di resistenza del mattone quella di uomini e donne che hanno preso parte alla lotta.

“Non capita mai che un mattone forato resista a un carico studiato appositamente per sgretolarlo. Quando questo succede è una rivoluzione”.
La macchina da guerra fascista era studiata per distruggere i partigiani, eppure questi ultimi hanno vinto: questa è una rivoluzione. La metafora è evidente e dichiarata.

Con pochissimi dettagli, un po’ di bandane rosse e mattoni dipinti di nero, la Baruffini ricostruisce gli eventi salienti della Resistenza a Parma, facendo propria la semplificazione tipica dei racconti per bambini e delle narrazioni popolari, ricche di espressioni formulaiche, di epiteti, e di ripetizioni di nomi e di luoghi. Alla fine dello spettacolo ricordiamo a memoria i personaggi: Gino il partigiano, sua madre, la mora dagli occhi storti, la sarta che cuce vestiti che sanno di miseria, la donna che partorisce gemelli e il medico che li fa nascere e poi morire, l’uomo pieno di spigoli.

Lo spettacolo, raffinato e composto, rischia però di essere un po’ piatto, privo com’è di coni d’ombra. Troppo facile distinguere buoni e cattivi, nessuna contraddizione, nessun tentennamento nei giudizi di valore. Come nelle favole per bambini, appunto. Mentre la Storia è piena di zone d’intersezione, di silenzi, di contraddizioni interne, di revisioni, e di errori di valutazione.

Giovani, impegno civile, rivoluzione e immaginazione
Al di là di un giudizio decisamente positivo della “rassegna”, che ha proposto spettacoli di qualità alta anche al confronto con lavori di registi e attori di consolidata esperienza, l’analisi degli esiti di questo Premio necessita, proprio in quanto specchio di larga parte della nuova generazione di teatranti che si affacciano adesso al panorama artistico nazionale, di una riflessione a margine.

Usciti da teatro si ha la sensazione questi gruppi sentano tutto il peso di capovolgere l’assunto che vuole i giovani d’oggi disinteressati alla politica, alienati sul lavoro, incastrati nel giogo del capitalismo sfrenato, nel segno di un impegno civile necessario, quasi obbligato, da cui non si può prescindere se si vuole essere “artisti di questo tempo”.

Ma le campane a morte suonate da questi spettacoli in un teatro sembrano rimbombare senza soluzione di continuità nel salotto di casa nostra dove guardiamo la televisione qualche ora dopo.  L’Ilva di Taranto, la Terra dei Fuochi, le trivelle in Basilicata, la disoccupazione, il disordine, la burocrazia che stritola, il sistema di potere, le mafie che sversano rifiuti nei nostri cortili. La frustrazione di non avere più niente. Perché che cosa resta alle amate terre del Sud, (ma anche a quelle del Nord) se non si possono più mangiare i prodotti coltivati nel nostro orto? Se le eccellenze non sono più tali?  Nel frattempo al valico la Coldiretti ferma i camion provenienti dall’estero, perché il made in Italy deve essere salvaguardato: ma quale Made in Italy? “Al Sud non c’è lavoro, non c’è sviluppo e non funziona mai niente”; “Però ci sono certe mozzarelle di bufala!” Ma ora che non abbiamo più neanche quelle, o quasi, non sarà forse il caso di aprire gli occhi per vedere la malattia, al di là di quell’attaccamento morboso che ci fa pensare che è “tutt’appost” e che in fondo da qualche parte abbiamo sempre un asso nella manica da tirare fuori al momento opportuno?

Tutto questo, appunto, ce lo racconta, con dovizia di particolari e martellamento quotidiano, la televisione. Erano gli anni sessanta quando la rivoluzione, anche teatrale, consisteva nel rivelare, nel dire ciò che la politica taceva.
Adesso i telegiornali, i libri, i documentari, internet, con tutte le mistificazioni e le storture e censure del caso, dicono molto più della realtà e della bruttura che ci circonda, in termini di informazione pura, di quanto possa dire uno spettacolo teatrale: le coscienze hanno molte occasioni per lasciarsi scuotere.

E forse ci si aspetterebbe dall’arte uno scatto successivo all’ennesima chiamata alle armi, un’apertura verso possibilità nuove, da inventare da zero.

E’ difficile stabilire quanto questa smania di entrare nel dibattito attraverso un attaccamento al reale sia frutto di una tardiva aderenza a modelli del passato che si vuole ripercorrere nella speranza di re-innescare tutte le conseguenze che avevano prodotto un tempo, o se sia una completamente rinnovato rigurgito destinato a produrre forme inedite di teatralità.

Vale la pena rifletterci un po’, prima di applaudire bonariamente all’impegno civile delle giovani generazioni senza approfondire le urgenze che si agitano in questi lavori, senza prestarvi la dovuta attenzione. E già che ci siamo mi fermerei a ragionare su una certa difficoltà di slancio dell’immaginario sintomo fin troppo evidente di uno stato di stallo dell’ottimismo diffuso, tangibile e piuttosto allarmante.

Spettacoli visti al Teatro Franco Parenti di Milano l’8 dicembre 2013

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