Biennale Venezia 2022, Teatro, Teatro recensione — 13/07/2022 at 10:20

“La Reprise” – “Histoire(s) du Théâtre (I)” di Milo Rau alla Biennale di Venezia

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RUMOR(S)CENA – VENEZIA – Un dramma moderno per raccontare la banalità del male: colpisce dritto al cuore La Reprise – prima parte della serie Histoire(s) du Théâtre (I) di Milo Rau (produzione International Institute of Political Murder (IIPM) – Création Studio Théâtre National Wallonie-Bruxelles) andato in scena al Teatro Piccolo Arsenale per la Biennale di Venezia 2022 firmata Ricci-Forte. Una pièce multimediale ispirata a un triste fatto di cronaca, un delitto insensato, apparentemente senza movente: un’esplosione di violenza che fa emergere tensioni sotterranee e segrete inquietudini nella apparentemente (quasi) tranquilla città di Liegi in Vallonia.

La morte di Ihsane Jarfi, scomparso nella notte dopo una breve conversazione con dei ragazzi di fronte a un bar e il cui corpo, rinvenuto due settimane dopo al limitare di un boco, portava i segni evidenti delle percosse e delle torture inflittegli dai suoi assassini, diventa il fulcro di una narrazione corale, con il pathos di una tragedia classica. Il regista e drammaturgo svizzero, già autore dello sconvolgente Five Easy Pieces e di opere che trasfigurano la realtà attraverso la rappresentazione come The last days of the Ceausescus sulla caduta di un tiranno, Hate Radio sul genocidio in Ruanda e The Congo Tribunal, oltre all’emblematico Empire e a Le 120 giornate di Sodoma mette in scena la ricostruzione di un efferato omicidio, in forma di rito insieme sacro e profano.

sebastien_foucault tom adjibi crediti foto michiel devijver

Un raffinato gioco metateatrale, in cui gli interpreti – gli attori Sara De Bosschere, Sébastien Foucault, Johan Leysen e Tom Adjibi, con il magazziniere Fabian Leenders e la dog sitter Suzy Cocco – ripercorrono a ritroso la nascita di uno spettacolo, dall’idea di indagare sulle radici di un atto così estremo e irrevocabile, sulle circostanze e sui protagonisti e restituire alla vittima la sua dignità attraverso le testimonianze di parenti e amici, ai provini, alle varie fasi dell’allestimento e all’elaborazione delle scene cruciali, permette (idealmente) di prendere le distanze dalla storia.

Il prologo in cui un attore si presenta e recita un frammento dell’Amleto di Shakespeare, ricorda come il teatro sia lo spazio fuori dal tempo dove i morti incontrano i vivi, poi la scelta del cast che permette di conoscere da vicino gli attori, professionisti e no, e si entra nel pieno di una tragedia contemporanea. La solitudine dei vivi costretti a fare i conti con il vuoto dell’assenza e la distanza inevitabile con cui si guarda a Il dolore degli altri, si traducono nello sgomento e nell’orrore di fronte a La banalità del male, fino alla crudeltà dell’Anatomia di un crimine mentre l’episodio curioso de Il coniglio risponde alla necessità di individuare dei segnali e di interrogare i defunti, per scoprire che cosa ci attenda al di là della soglia fatale. Un dramma in cinque atti, in cui la fragilità e la tenerezza dei corpi nudi degli anziani genitori si sposa all’intensità dei volti nei primi piani sullo schermo, in quella terribile notte dopo la quale nulla sarà mai più come prima, mentre affiora il presagio dell’irreparabile, in un continuo gioco di specchi che amplifica e moltiplica l’azione e insiste sui dettagli; e il racconto prosegue tra i destini paralleli di giovani coetanei che conducono alla potenza salvifica dell’arte o alla noia e alla perdizione e il ruolo del caso, nel determinare il contesto e l’occasione, fino allo scatenarsi rapido e imprevisto della violenza in un’aggressione ingiustificata conclusasi con un omicidio.

crediti foto michiel devijver

Quel che resta dopo la catastrofe è lo smarrimento, è il dolore e il senso di colpa dei superstiti: il sacrificio umano, lo spargimento di sangue innocente non per placare qualche spietata divinità ma per rompere la noia e vivacizzare una serata tra amici tra ebbrezza alcolica e abuso di stupefacenti dando sfogo all’insoddisfazione e alla rabbia repressa con manifestazioni d’odio, non concede perdono, né oblio, e neppure catarsi.

Il teatro è finzione capace (forse) di influenzare la realtà, così come la vita può essere replicata, evocata e rappresentata sulla scena: ne La Reprise Milo Rau si affida ai versi di Wislawa Szymborska – «Per me l’atto più importante della tragedia è il sesto:/ il risorgere dalle battaglie della scena,/ l’aggiustare le parrucche, le vesti,/ l’estrarre il coltello dal petto,/ il togliere il cappio dal collo,/ l’allinearsi tra i vivi/ con la faccia al pubblico», scrive la poetessa in Impressioni Teatrali – per ristabilire il confine della verità senza rinnegare l’autenticità delle emozioni né rinunciare alla libertà dell’arte. Il finale è sorprendente, un invito a un’assunzione di responsabilità con l’immagine folgorante di un nodo che toglie il respiro, e che solo un pubblico consapevole e partecipe può sciogliere, decidendo di intervenire e di spezzare il circolo vizioso, risvegliandosi da quel pericoloso sonno della ragione che genera mostri per combattere la battaglia contro la barbarie alla luce della ragione e dell’amore. Il senso di una tragedia inutile, e perciò ancor più terribile, sta forse nella presa di coscienza della comunità davanti a un delitto di probabile matrice omofoba, maturato in seno a una società segnata dalla crisi e dalla crescente disoccupazione che incombe e accomuna tutti i protagonisti della vicenda, in scena e fuori: imparare a non volgere altrove lo sguardo, a vincere l’indifferenza, o l’insofferenza verso la sofferenza altrui, per riscoprire l’empatia e la propria umanità, è il suggerimento prezioso di un’opera che fonde la modernità del linguaggio all’universalità e profondità dei classici.

Un viaggio nei labirinti della mente e del cuore, per superare i pregiudizi e le paure e interrogarsi sulle convinzioni più radicate e sui retaggi dell’educazione, elaborando il lutto per una morte assurda e per la fine dell’innocenza, in un rito collettivo e laico culminante, in chiave di moderna trenodia in ricordo di Ihsane Jarfi, nelle note ipnotiche di The Cold Song dal King Arthur di Henry Purcell che risuonano stranianti e strazianti mentre un muletto “danza” sul palco, in istanti di struggente e visionaria poesia.

Visto alla Biennale Teatro di Venezia il 1 luglio 2022

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