Recensioni — 12/01/2023 at 11:36

“Fine pena ora”: il carcere da una differente visuale

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RUMOR(S)CENA – TORINO – Il libro Fine pena: ora, di Elvio Fassone, uscito nel 2015 per i tipi di Sellerio, nasce da un atipico rapporto epistolare instaurato fra lo stesso Fassone, presidente di un maxiprocesso che si è concluso con la irrogazione di diversi ergastoli agli imputati: Uno di costoro – Salvatore, nella finzione letteraria – dopo la conclusione dell’iter giudiziario, inizia a scrivere a Fassone, la cui sensibilità umana ha avuto modo di verificare, quando il magistrato, durante il processo, gli aveva consentito di incontrare la madre morente senza la scorta al fianco, per evitarle un trauma. È da quel momento che si stabilisce un reciproco leale riconoscimento fra i due.

E dopo la condanna Salvatore sembra identificare nel giudice – cui si rivolgerà sempre chiamandolo “Signor Presidente”, quella figura paterna – che probabilmente non ha mai avuto – e Fassone sente la responsabilità di rispondergli. Il rapporto epistolare dura quasi trent’anni, e diventa infine un libro, dalle cui pagine traspaiono le convinzioni di Fassone, da sempre sensibile al problema della carcerazione e alle contraddizioni che certe sue forme, l’ergastolo in primis, presentano rispetto al dettato della Carta costituzionale.

Il libro aveva già avuto una trasposizione sulla scena, per iniziativa di una prestigiosa istituzione teatrale, ma nella quale l’autore non si era del tutto riconosciuto e che, anche a sommesso parere di chi scrive, non aveva colto appieno il significato del libro. La piccola ma dinamica compagnia torinese Tedacà è riuscita dove la prestigiosa istituzione nazionale aveva fallito, anche grazie al rapporto simpatetico che Simone Schinocca, responsabile della drammaturgia e della regia, aveva instaurato con l’autore.

Elvio Fassone Magistrato

Sulla scena Elvio Fassone è interpretato da Giuseppe Nitti, un attore non ancora quarantenne, dai capelli lunghi (non so se Fassone li abbia mai portati così), non incongrui, tuttavia, rispetto alle sue coraggiose prese di posizione, che definirei sessantottine. Fin dall’inizio della sua carriera di magistrato Fassone, pur connotato da una sua riservatezza e gentilezza di tratto, aveva avuto il coraggio civile di assumere, senza scalpore mediatico, iniziative controcorrente, in nome del diritto e della dignità da riconoscere anche a soggetti emarginati o discriminati: ad esempio, la condanna inflitta a un sottufficiale dei carabinieri che aveva percosso senza giustificazione un pregiudicato.

Senatore della Repubblica per due legislature, della sua carriera di magistrato è giusto ricordare almeno la condanna inflitta da Fassone al generale Giudice per lo scandalo dei petroli, o l’assoluzione di Corrado Staiano, emessa in nome del diritto d’inchiesta, principio che successivamente sarebbe stato recepito dalla Cassazione; e ciò già prima del maxiprocesso del clan dei Catanesi, che negli anni ’87 e ’88 lo aveva tenuto segregato per un anno e mezzo nel bunker del carcere delle Vallette di Torino, e durante il quale incontra Salvatore.

Lo spettacolo tratto dal libro aveva debuttato al Festival delle colline tornesi nell’ottobre 2021.

La scenografia è molto spoglia, caratterizzata da una cascata di corde che scendono dalla graticcia: un oggetto tabù per il carcere, che ha qui una sua funzione drammaturgica che si chiarirà nello sviluppo dello spettacolo: all’inizio possono suggerire una barriera fisica che separa la cella, dove Salvatore è sdraiato su una panca, dal mondo di chi è all’esterno, libero di muoversi. Ma i nodi che le legano verranno via via sciolti e le corde cadranno a terra, annullando progressivamente quel confine che separa il pubblico dalla solitudine di Salvatore e dal mondo dei demoni che lo agitano. A ciò si presta specialmente una figura femminile, che interpreta Rosy, la donna che ha deciso di sposare Salvatore, e che gli rimane vicina per oltre vent’anni, visitandolo in tutte le carceri ove lui viene di volta in volta trasferito; ma che è anche una sorta di personaggio coro, che ci aiuta a orientarci nel trascorrere del tempo.

Perché in quei trent’anni, percorsi da faticosi tentativi di allentare la durezza dell’ergastolo e di costruire una speranza di uscita, incoraggiati e seguiti con partecipazione emotiva da Fassone – ma ogni volta frustrati per motivi burocratici – le due figure, il giudice Fassone e l’ergastolano Salvatore, sulla scena rimangono immutabili nel loro aspetto e nella loro età. E così come Fassone rimane legato a un’immagine di eterno quarantenne (qual è nel ricordo di Salvatore); questi, interpretato dall’ottimo, intenso Salvatore D’Onofrio, mai sopra le righe, è un uomo sui cinquantacinque.

E pur tuttavia il rapporto quasi paterno, di cui Elvio si sente, a poco a poco responsabilmente investito, emerge con chiarezza. Lo percepiamo in una frase di Salvatore, inquietante e terribile, perché ne sentiamo la verità (e anche la denuncia di una profonda ingiustizia sociale): “Se fossi nato dove è nato suo figlio, a quest’ora sarei un avvocato”. Ma specialmente quel rapporto trova una sua felice espressione figurativa in una delle più belle intuizioni registiche di Simone Schinocca, quando vediamo Salvatore, che Fassone ha convinto a intraprendere degli studi, seduto con un libro in mano, e il giudice in piedi alle sue spalle, la toga aperta come ali di un nero ma protettivo angelo custode.

Su un piano non puramente teatrale, ma etico e sociale, mi è utile citare un’osservazione colta sulle labbra di una spettatrice fortemente coinvolta, che nota: “Lo spettacolo, come già il libro di Fassone, ci induce a una necessaria riflessione sul carcere, offrendoci un punto di vista differente rispetto a quello, forse più diffuso, ma esclusivamente legato al pur fondamentale diritto alla sicurezza, ricordandoci che nessun uomo è mai interamente definito da una singola azione compiuta, e che è dovere di una democrazia matura credere alla funzione rieducativa della pena, e agire di conseguenza”.

Alla prima, al teatro Gobetti, la presenza del giudice Fassone, pur seminascosto in posizione defilata, è stata accolta da una lunga e convinta standing ovation. Ma in occasione di una delle successive repliche è successo ancora qualcos’altro, davvero commovente: dopo una lunga e defatigante trattativa burocratica condotta per mesi, che era sembrata senza esito né speranza, all’ultimo momento è arrivata, per Salvatore, attualmente detenuto in Sardegna, l’autorizzazione a recarsi a Torino. Cosicché, dopo oltre trent’anni, l’ergastolano e il suo giudice hanno avuto modo di incontrarsi nuovamente di persona, assistere insieme a una replica dello spettacolo al teatro Gobetti, misurare il tempo trascorso dalle tracce da esso lasciate nell’aspetto di ognuno dei due; ma anche di verificare lo spessore e l’autenticità di un così atipico e asimmetrico rapporto umano.

              

Visto al teatro Gobetti di Torino il 6 dicembre 2022

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