Teatro, Teatrorecensione — 11/11/2013 at 19:24

A.H: Antonio Latella crea un meccanismo raffinato tra arte contemporanea e teatro

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In un recente articolo, dell’estate scorsa, Renato Palazzi formalizzava le nuove espressioni teatrali di questo decennio: “La messa in ombra del testo come pura costruzione drammatica, come insieme di dialoghi tra figure in carne e ossa, sostituito da materiali verbali di vario tipo da dire, da enunciare, da comunicare direttamente agli spettatori. Il conseguente superamento di quell’ingombrante entità che è il personaggio. E la scomparsa dell’intreccio, del plot da rappresentare: oggi, invece, si ritiene per lo più che il teatro debba trasmettere soprattutto dei punti di vista, delle idee.”

Un assunto fondamentale per comprendere e dire del teatro di Antonio Latella. Per acclamazione uno dei migliori registi in circolazione. Ma partiamo da un altro assunto, più pragmatico, più vivido: visionare un certo tipo di teatro, contemporaneo, post-drammatico, in una provincia del profondo Sud è già di per sé una notizia. Addirittura un clamore, quando per il resto ci si abitua a spettacoli da abbecedario o da banalità macroscopiche. Quando il ‘teatrare’ è diretta conseguenza dell’assistenzialismo clientelare della politica meridionale. La vince allora chi porta i santi in spalla, come in processione. Il risultato è un teatro che resta nelle pareti di una sola serata o negli applausi degli amici e dei parenti compiaciuti.

Guardare del teatro nelle forme in cui assume sembianze attuali e frutto di vera ricerca, è un lusso a queste latitudini. L’assunzione di responsabilità nell’oneroso compito di invadere i rigidi rigori della provincia sonnacchiosa, dove il nuovo non è facilmente ben accetto, e di adombrare la triste grigia luce dei baroni del teatro calabrese (organizzatori e factotum dei politici su tutti) è lodevole. Grazie per il teatro possibile, allora, per cui altrimenti si sarebbe costretti a emigrare perfino da spettatori.

Detto questo, è facilmente intuibile perché uno spettacolo come “A.H.” di Antonio Latella, possa suscitare pruriti, risulti anche indigesto, incomprensibile. Certo, uno spettacolo può non piacere. Per gusto. Uno spettacolo può non piacere, però, perché si hanno delle aspettative. Aspettative dettate dalla cattiva abitudine alla scena, in altre parole frutto di una cattiva o manchevole diffusione e assunzione della cultura teatrale. Certo, è al pubblico che il teatro si rivolge. In senso universale, non ristretto ai fruitori di una platea. E al pubblico bisogna dare conto. Al pubblico ‘incolto’, al ‘popolo’. Spiegarne le ragioni è superfluo e retorico. “A.H.” divide. Non parla direttamente al pubblico.

(crediti foto di Angelo Maggio)

“A.H.” è arte contemporanea. La ricerca che si fa verbo, il verbo che diventa meccanica, la meccanica che si tramuta in estetica. Il concetto assunto in materia, sostanza e forma. Per cui il progetto registico a monte dello spettacolo è da individuare quale lavoro certosino di architettura di scenari invisibili. Dentro cui la carne, il corpo, la plasticità, gli attributi dell’attore donano alito e esistenza (scenica) all’idea. Due elementi, registico e attorale, diademi di uno spettacolo destinato a lasciare tracce non solo negli intelletti e negli animi dei critici più autorevoli. Due elementi non comunicanti tramite rapporti di subordinazione, piuttosto paritari, biunivoci, uno necessario all’altro. Elementi distinguibili, dai confini abbastanza netti, e fusi allo stesso tempo nell’azzeramento di sovrastrutture conseguenza di un totale rapimento verso le scene.

Francesco Manetti, che di solito non si mette in scena ma cura il training psicofisico degli attori, è meraviglioso. Per dedizione, efficacia, mestiere, trasfigurazione, biomeccanica. Gli applausi scroscianti di fine spettacolo sono tutti per lui. La poetica di Latella è avanguardista. Il suo modo di dare voce alla materia, al silenzio, all’immagine viva e all’immaginazione scrive nuove partiture alle grammatiche teatrali. In “A.H”, l’essenzialità della scena (quasi nuda) diverge nel minuzioso sacrificio attorale a cui Manetti si immola. Diventando il grande dittatore, l’emblema del male, del cannibalismo tra uomini, il signore della guerra. Bastano due dita di cioccolata per baffetti, e un riporto, ancora con cioccolata, su cranio calvo.

(crediti foto di Stefania Sammarro)

Il materiale verbale di enunciati, versi (gutturali), gesto, mimica (caratterizzanti l’apparato dell’allestimento) è metamorfosi scenica della dialettica d’avamposto del primo quarto d’ora di spettacolo. ‘Menzogna’, la prima parola recitata. Per poi discorrere su genesi, semantiche bibliche, filosofie colloquiali, sintesi degli opposti. Una chiave di lettura per uditori attenti. Teoria e prassi. Prassi della scena, del teatro, della figura. Quella semiotica audiovisiva che nel cenno (segno, simbolo) si attua in forma primordiale.

Le scene si susseguono a voler dare ampiezza al soggetto. ‘A.H.’ per dire della guerra. Per dire del male. Dell’avidità di onnipotenza. Per dire della religione a cui l’uomo ubbidisce come un burattino. Come Pinocchio al babbo. Una delle innumerevoli citazioni dello spettacolo (tra queste Chaplin, Lars Von Trier, Martin Wuttke, e forse Manara). Ad indicare il teatro che non perde la memoria, per non perdere la memoria. A.H. un percorso sensoriale, dal nulla, alla genesi, a nuove crocifissioni e ritorno fetale. Umano troppo umano che si confonde con l’idea di un Dio. Perché il resoconto sia comprensione collettiva e individuale: nella commozione, nell’assenza di sintesi verbale e non, nell’emarginazione del personaggio e dell’intreccio, negli approdi verticali frammentati e da ricomporre.

Lo spettacolo è un prodotto puramente teatrale, ribaltandone i canoni. Nelle soluzioni incisive e povere (nell’accezione Grotowskiana del termine), nella sintattica iconografica sciorinata sotto un parterre di luce naturale – in cui il pubblico per gran parte della messa in scena rimane visibile – nel mito che si traduce in pulsioni, nel contatto diretto e allo stesso tempo epico con la platea. Ricerca e innovazione che riciclano l’originario. Parola e gesto a trasmettere idee, punti di vista. Responso che crea dissenso. E il dissenso alimenta la democrazia. E il teatro, resta uno dei pochi luoghi di democrazia esecutiva. Se non altro, per la libertà di pensiero e giudizio sulla visione.

 “A.H.”

drammaturgia di Federico Bellini e Antonio Latella. Regia di Antonio Latella. Scene e costumi di Graziella Pepe. Luci di Simone De Angelis. Con Francesco Manetti.

Produzione  stabilemobile compagnia Antonio Latella, Forlì – Centrale Fies, Dro (Tn)

 Visto al ‘More Fridays’ rassegna di teatro contemporaneo a cura di Scena Verticale – Teatro Morelli, Cosenza –

 

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