Spettacoli — 11/03/2022 at 10:39

Quattro vite ed un unico specchio

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RUMOR(S)CENA – GENOVA – Chi ha paura di Virginia Woolf è, e tra i più famosi, melodramma nel solco della grande tradizione nordamericana di metà novecento, segnata da un Tennesse Williams ad esempio, ma, forse perché scritto in una età ormai in transizione, è melodramma già eterodosso se non anomalo. Infatti se il melodramma come forma estetica e teatrale in particolare esprimeva in quella temperie storica la disperata ricerca del sentimento oltre i limiti e le sbarre di una condizione umana sempre più alienata, qui esplode l’angoscia profonda, se non la tragica constatazione, che il sentimento non possa essere percepito e raggiunto che attraverso il dolore.

crediti foto di Brunella Giolivo

Un dolore già inevitabile ma non ancora ineluttabile forse, che è esistenziale, psicologico ma quasi solo per esplicitarsi in una sofferenza fisica che distorce quasi definitivamente gli stessi connotati umani, i segni di quella umanità che ancora rimane nei tratti man mano più grotteschi di questa coazione a soffrire facendo male. La narrazione è a tutti, o quasi, nota: una coppia matura con le stimmate di una antica storia di anaffettività subita e praticata, si confronta in un duello psicologicamente all’ultimo sangue, un sangue che sembra talora scorrere rosso e concreto come in un incubo ad occhi aperti, di fronte ad una coppia di giovani ospiti, forse per coinvolgerli e precipitare in essi, a parziale catarsi, il proprio dolore, o, chissà, per metterli in guardia e dare loro una occasione ancora, quella che loro non hanno mai avuto o hanno perduto (inevitabilità dunque non inelluttabilità).

crediti foto di Brunella Giolivo

Così non è solo un gioco al massacro fine a se stesso, come la più diffusa e tradizionale sua percezione ci insegna, ma è anche un grido di aiuto che alla fine si scioglie in un dolore più melanconico e partecipato. Fuori la vita continua. Buttare fuori oscenamente, esporre il proprio dolore diventa così il sacrificio di una notte, da parte di due vittime capri espiatori, che la vita offre alla morte; è come vomitare il male per rintracciare ciò che di bene potrebbe forse rimanere. Ci appare dunque non un dramma così compatto come a prima vista sembrerebbe, ma con inaspettate vie di fuga, sfumature e quelle moltissime suggestioni che ne hanno decretato il successo teatrale e cinematografico.

Quest’ultima messa in scena ha in sé molta tradizione ma tenta anche, con Antonio Latella, una rilettura registica interessante, ma non sempre efficace e coerente, forse nel desiderio di imporre allo stesso transito scenico una interpretazione che si sovrappone senza sciogliersi in essa pienamente. Risulta così, in un contesto che tenta di rendere quasi figurativamente la forza di sentimenti, per ustionare lo sguardo insieme alla mente, qualche sfasatura che inficia in qualche momento e appesantisce rallentandola la dinamica stessa della rappresentazione.

crediti foto di Brunella Giolivo

I frammenti onirici, quasi metafisici, che, ad esempio, si percepiscono soprattutto nella seconda parte non appaiono infatti pienamente appartenere ad un melodramma che di per sé è esistenzialmente psicologico e che basa la sua forza sul dialogo fitto e articolato in profondità attraverso il quale costruisce la realtà (quella del palcoscenico ovviamente). D’altra parte è uno spettacolo che impone agli attori una grande fatica, anche fisica per lo spessore e anche la lunghezza del testo, una fatica che i movimenti e le posture rendono anche nella sua componente più angosciosamente dolorosa. La prova dei protagonisti è in questo apprezzabile per la naturalezza del loro recitare e insieme la forza espressiva con cui riescono a piegare il loro reciproco relazionarsi.

Qualche perplessità desta la microfonatura, in artisti tutti di grande qualità a partire da Sonia Bergamasco e da Vinicio Marchioni, forse a scegliere un approccio più cinematografico al testo, e quindi una distanza alienante che anche una certa qual mimica accentua. Uno spettacolo comunque importante, con un esito scenico apprezzabile. Una buona accoglienza.

Produzione TEATRO STABILE DELL’UMBRIA con il contributo speciale della FONDAZIONE BRUNELLO E FEDERICA CUCINELLI. Traduzione Monica Capuani. Regia Antonio Latella. Interpreti Sonia Bergamasco, Vinicio Marchioni, Ludovico Fededegni, Paola Giannini. Dramaturg Linda Dalisi. Scene Annelisa Zaccheria. Costumi Graziella Pepe. Musiche e suono Franco Visioli. Luci Simone De Angelis.

Visto al teatro della Corte-Ivo Chiesa, ospite del Teatro Nazionale di Genova, dall’ 8 al 13 marzo.

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