Recensioni — 08/04/2022 at 09:20

Una Terra Madre, custode e prigioniera

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RUMOR(S)CENA – GENOVA – Passati dieci mesi dall’ultimo Festival di Santarcangelo, ho rivisto Madre del Teatro delle Albe. Io credo che, anche se non è più così nell’oggi, rivedere anche più volte uno spettacolo teatrale dovrebbe essere, come un tempo, abituale per un critico o uno studioso. In effetti, da Gramsci a Gobetti, si riteneva giustamente che ogni replica fosse in un certo senso unica, capace cioè di variazioni, a partire dalla recitazione, in grado ogni volta di fornire suggestioni e risposte nuove. Qualcosa dunque cambia, inevitabilmente, nella contingenza e nell’occasionalità del tempo teatrale, che affonda ad esempio, il suo sguardo odierno in un orizzonte deformato da eventi inaspettati (o magari temuti e scotomizzati) e angosciosi. Sorta di atmosfera opaca in cui quello sguardo e la parola che produce sembrano potersi dissociare e disperdere.

Ermanna Montanari. Fotografia di Enrico Fedrigoli, 2020

Per questo credo che la messa in scena in un interno teatrale, e non all’aperto come nell’estate romagnola, abbia valorizzato determinati accenti, altrimenti più sfumati, e abbia offerto una intimità che apre ad una maggiore condivisione. Ermanna Montanari, bravissima come sempre, attraversando così il suo mondo, il mondo delle sue donne figlie e madri da Daura ad Alcina, da Madre Ubu a Mariah, e a tante altre i cui tratti all’improvviso ricompaiono segnati come le bianche calle nella nostra memoria, attraversa anche il nostro mondo, quasi sperando di salvarlo infine da una decadenza e da un impoverimento, in passioni e percezioni, e non solo o non tanto per la sua natura e la economia colpevolmente ferite e profondamente malate, che sembrano assediarlo.

Una narrativa che è poi anche dispiegata, nella sua più ampia sintassi cinematografica, in ER il film di Marco Martinelli sulla stessa Ermanna (il filo come di Arianna che lega e guida è la vicenda di ER eroe mitico che scende nei propri inferi), proposto il giorno successivo 3 aprile, in cui il singolare e molto efficace montaggio provoca una sorta di diffrazione nell’evoluzione temporale, creando sovrapposizioni e circuitati ritorni, sintatticamente, di profondo impatto ed effetto drammaturgico. La drammaturgia narra di una madre caduta in un pozzo, nascosto nel profondo di ognuno di noi, origine e scaturigine di ogni nostro pensiero, e di un figlio, disattento e affettivamente sempre più lontano, che non può o forse ormai non vuole più salvarla con i meccanismi sociali e la tecnologia che ha programmato e di cui sembra disporre nell’indotto isolamento relazionale.

All’inizio è un bisbiglio, un confabulamento indistinto, una suggestione vocale che man mano si trasforma in onomatopea, a suggerire il mondo di questa madre prima ancora di esserne, noi con lei, coscienti e di saperlo descrivere. È come se, aggredito da un dolore profondo, l’essere umano non potesse che ricorrere ad una sorta di suono pre-verbale, ante logos, in grado forse di contenere ed esprimere quello che la parola, razionalmente strutturata attorno al decaduto e distratto significato che porta su di sé, non appare più in grado di rappresentare, perché troppo essenziale ed insieme troppo universale segno della propria condizione.

Ermanna Montanari. Fotografia di Enrico Fedrigoli, 2020

La guarda, questo figlio gigante, in fondo a quella oscura cavità, che alla fine è anche la propria e che con lei condivide, e la rimprovera per non dover rimproverare se stesso. Una madre immersa in una sorta di umido vitale, oscuro e buio, un liquido amniotico che è un imprevisto ribaltamento di senso, prigioniera dentro quel mare che lei stessa produce e che si dilata e trabocca, mentre rievoca gli antichi tempi dell’Imperatore Giallo in cui gli specchi ci rimandavano la nostra diversità e le mille sfaccettature della nostra identità.

Prima però che una guerra improvvisa (!), dalle molte vittime, ci omologasse tutti rendendoci in fondo (le parabole come le leggende hanno sempre una morale) sempre stancamente e acriticamente uguali all’immagine che ci offrono di noi. Il rapporto primigenio dunque, che la relazione madre e figlio, così inaspettatamente ribaltata e quasi alienata, metaforizza rendendolo universale, tra natura e umanità, tra esistenza e storia, si affolla così nelle mille e mille suggestioni che la scena, quasi traboccante di linguaggi, tra figuratività e musica, sollecita. Questo intenso e profondo poemetto scenico di Marco Martinelli, fatto di parole che si sciolgono nel corpo, nel doppio corpo che, sopportato in scena da Ermanna, le ha suggerite, e ne producono una eco potente come un rimbombo, è dunque una sorta di ritorno agli inizi necessario, credo, per poter procedere oltre, artisticamente ed anche esistenzialmente, e questa è una cosa che riguarda tutti noi in quanto richiamo in fondo squisitamente politico.

Ci guida la voce, unica, di Ermanna Montanari che si alimenta in quell’impasto multilinguistico, tra aspro dialetto romagnolo e lingua, che costituisce una sorta di terra natale della creazione del Teatro delle Albe, e che quasi sembra prescindere dal suo stesso corpo, come l’acusma, “un fantasma sensoriale”, un suono prodotto da una fonte invisibile, che il critico e musicista francese Michel Chion indicava come una delle più intense suggestioni che possano prodursi sullo schermo ma anche in scena. Una peripezia, infine, irrobustita efficacemente dai bellissimi disegni di Stefano Ricci e dalla altrettanto bella musica dal vivo del compositore Daniele Roccato.

Un testo, dunque, fatto di innumerevoli sottotesti che la forza della recitazione di Ermanna Montanari e la pregnanza figurativa del loro farsi immagine e del loro lasciarsi trasportare dalle note talvolta acute e taglienti del contrabbasso rintracciano e fanno emergere sulla scena. Uno spettacolo, in cui prevalgono gli accenti lirici, di struggente intimità ma capaci di grande forza di condivisione e attrazione. Un teatro di interni (fisici e psicologici) per ritornare ad essere vicini a noi, sempre in attesa, spettatori e così di nuovo aperto alla forza singolare del loro racconto scenico, a quell’epos drammaturgico che tanto abbiamo amato e amiamo nei loro lavori.

Al Teatro Akropolis di Genova Sestri Ponente, il 2 aprile, primo spettacolo ospite della nuova stagione. Un grandissimo apprezzamento dagli spettatori.

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