Interviste, Teatro — 08/04/2014 at 22:44

Và pensiero che io (ancora) ti copro le spalle, la nuova creazione di Dario De Luca e Giuseppe Vincenzi

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foto di Rita Merenda
foto di Rita Merenda

COSENZA – Nuova produzione per Scena Verticale. La firma Dario De Luca con Giuseppe Vincenzi, musicista e ingegnere.“Và pensiero che io (ancora) ti copro le spalle”, che ha debuttato in anteprima venerdì scorso al teatro Morelli di Cosenza nell’ambito della rassegna More Fridays, in corso fino a maggio.

L’attore, regista e anima del gruppo racconta l’ennesima avventura teatrale.

E’ un’anteprima – spiega De Luca – ancora ci sono margini di crescita. Voglio scandagliare gli umori del pubblico e questa al “More” mi sembra l’occasione giusta per far visionare lo spettacolo nella versione pressoché definitiva. La prima nazionale verrà allestita quest’estate in uno dei festival in giro per l’Italia.”

Ha accennato al More, la rassegna in corso al Teatro Morelli di Cosenza sede della vostra residenza artistica. Si tratta di un focus sulla Calabria, e il suo teatro, con respiro nazionale. Come sta andando?

Sta andando bene. Penso sia doveroso per noi, considerato il lavoro che portiamo avanti con Primavera dei Teatri, e considerato che gestiamo un grande teatro in una grande città, tenere uno sguardo costantemente vigile sulle produzioni di contemporaneo fatte in Calabria. Non possiamo esimerci dall’avere questo sguardo e provare a capire quello che muove il teatro contemporaneo in Calabria. Penso ci sia ancora tanta strada da fare, a riguardo, però iniziano a esserci delle strutture artistiche che si sono rafforzate, che iniziano ad avere un percorso di un certo peso, iniziano ad avere delle poetiche che prendono forza. Quindi la rassegna è una cosa che va fatta. Visionando anche la drammaturgia di scrittori Calabresi e l’attoralità di calabresi in giro fuori dalla regione.

Tornando alla sua produzione, lei si mette in gioco ancora una volta con il teatro canzone, un genere con cui le piace il confronto, intanto per l’immediatezza del rapporto d’interazione con il pubblico.

“Sì, trovo il genere efficacissimo, trasversale anche, perché si riesce ad avvicinare pubblici diversi, sia per la presenza della musica, sia per la presenza di una certa teatralità, giocata, alle volte con rigore ma giocata sul pubblico. E penso che non bisogna avere una chiusura intellettuale sul genere considerandolo altro dal teatro contemporaneo o dalla nuova drammaturgia. Credo che il genere possa essere rinverdito, rimanipolato, dopo la sua massima espressione con Luporini e il guru Gaber, credo il genere possa avere nuova vita, nuova forma, nuovi autori.”

foto di Rita Merenda
foto di Rita Merenda

Tracce e riferimenti che ne hanno disegnato la linea artistico/poetica?

“I miei riferimenti sono soprattutto teatrali. Venendo dal teatro e non dalla musica. Citerei Petrolini, un certo Rascel, il cabaret tedesco nell’accezione più nobile in cui si riusciva a parlare della società, dei contesti sociali e politici, ironizzando e usando la musica rinsaldando il connubio tra recitato e cantato. Questi sono gli spunti derivati dalla mia formazione teatrale.”

Si tratta di un “sequel”, seconda tappa di un percorso, una trilogia, portata avanti quale altro modus operandi per continuare l’indagine, caratteristica delle orme di Scena Verticale, sull’humus calabrese per amplificare in un contesto e in una voce più universale.

“L’idea è esattamente questa. Io e Giuseppe Vincenzi, grande anima di questo progetto, che ha scritto i testi delle canzoni e in questo spettacolo ha scritto pressoché tutto, abbiamo recuperato dei materiali già esistenti nella sua e nella nostra produzione e che ho voluto reinventare e rimixare pensando che potessero essere giusti per questa trilogia denominata ‘trilogia del fallimento’. Perché raccontiamo questa società, questo momento storico, da un punto di vista geografico, la Calabria, con uno sguardo su tutta l’Italia. Un fallimento della nostra generazione, i quarantenni di adesso: l’idea di partenza era quella di raccontare la mia generazione: nel primo spettacolo (Morir sì giovane e in andropausa) abbiamo affrontato il tema lavorativo dell’essere considerati sempre giovani ed essere invece, anagraficamente, delle persone adulte, decisamente adulte, rimaste giovani in una società gerontocratica. Ci siamo accorti, riflettendone nella nuova opera, che attualmente forse c’è stato un salto: iniziano a prendere potere i più giovani di noi, per cui noi della nostra generazione siamo stati troppo giovani quando erano al potere i sessantenni e i settantenni, adesso comanda la generazione dei trentenni per cui la fascia d’età dai 40 ai 55 probabilmente è stata saltata. Una classe dirigente che non è nata, naturalmente con le dovute distinzioni, una generazione che ha saltato il suo momento. Allora, per raccontarne, la scelta sul teatro canzone, straordinario, ma anche uno dei generi più fallimentari del teatro e della musica che in Italia ha avuto due giganti come Gaber e Luporini e poi il nulla. Un genere fallimentare per raccontare il fallimento di una generazione.

Relativamente alla costruzione delle scene, è possibile notare tonalità pop, intendendo non l’accezione più sdoganata e unta del termine, piuttosto una fotografia su cause e insiemi, abitudini e attitudini di questo smarrimento. Portando in superficie stereotipi quali il consumismo o l’obbligo di dovere essere ‘commerciali e commerciati’, l’arruolarsi necessariamente nei social network per non scomparire socialmente. E lo fai con degli stilemi decisamente più teatrali rispetto al primo lavoro.

Da una parte c’è una leggerezza diffusa a vari livelli, intanto nei contenuti. Leggero in maniera Calviniana, una pensosa leggerezza insomma. Lo è nei temi: facebook, whatsapp, internauti, tutto quello che sembra obbligatorio avere o saper gestire. Leggero come struttura di spettacolo, pianoforte e voce, due persone in scena, un musicista e io come attore. Ho sentito forte l’esigenza di creare una situazione più teatrale che musicale, infatti, al centro del palco c’è questa piccola scatola magica che racconta, mettendomi dietro questa scatola, in ombra, tutta una serie di situazioni avvalendomi del teatro. Mi piace raccontare di questo omino e delle sue tragicomiche avventure, narrandone inoltre i momenti più intimi: ogni volta che va dentro, la scatola magica s’illumina e lo vediamo in ombra in situazioni intime: sul water a riflettere, nella cabina elettorale con tutto il disagio provato – di recente soprattutto – in una cabina elettorale non avendo punti di riferimento certi, in un momento in cui sta per suicidarsi. Tre momenti intimi che generalmente non sono alla ribalta pubblica, che non si possono vedere, allora mi divertiva farlo, mi sembra efficace e giusto per la costruzione dello spettacolo e il teatro delle ombre è un altro di quei generi teatrali dove, soprattutto nel teatro delle ombre orientali, chi aziona le ombre inoltre canta, recita, suona. La complessità delle ombre orientali mi piaceva provarla in un genere completamente diverso e capire se si poteva amalgamare.

Qualche anticipazione sul terzo e ultimo atto della trilogia?

“Sì, stiamo già scrivendo una terza parte che avrà sempre un incipit, nel titolo, sulle arie verdiane. Decidendo di prendere Verdi a nume tutelare in primis perché ha cercato di essere sempre popolare con la sua musica, molto vicino al pubblico, nell’ottocento il melodramma verdiano era conosciuto da tutti gli ambienti sociali, e poi perché ha amato pensare che con la sua musica potesse essere efficace per creare una nazione unita. Allora ci ha sempre divertito, a me e Vincenzi, pensare cosa avrebbe pensato “Peppino” di questa Italia di oggi dopo aver fatto tanto per vederla unita. Quindi il terzo capitolo avrà ancora l’incipit verdiano ritornando sul palco con tutta la band, provando a giocare ancora di più con i musicisti sul palco, coinvolgendoli ancora di più a livello attorale”.

 

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