Recensioni — 05/05/2021 at 13:40

La stanza immonda: La metamorfosi di Kafka con la regia di Giorgio Barberio Corsetti

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RUMOR(S)CENA – TEATRO ARGENTINA – ROMA – «Sarà per voi in abominio anche ogni insetto alato, che cammina su quattro piedi.  Però fra tutti gli insetti alati che camminano su quattro piedi, potrete mangiare quelli che hanno due zampe sopra i piedi, per saltare sulla terra. Perciò potrete mangiare i seguenti: ogni specie di cavalletta, ogni specie di locusta, ogni specie di acrìdi e ogni specie di grillo. Ogni altro insetto alato che ha quattro piedi lo terrete in abominio! Per i seguenti animali diventerete immondi: chiunque toccherà il loro cadavere sarà immondo fino alla sera e chiunque trasporterà i loro cadaveri si dovrà lavare le vesti e sarà immondo fino alla sera. Riterrete immondo ogni animale che ha l’unghia, ma non divisa da fessura, e non rumina: chiunque li toccherà sarà immondo. Considererete immondi tutti i quadrupedi che camminano sulla pianta dei piedi; chiunque ne toccherà il cadavere sarà immondo fino alla sera. E chiunque trasporterà i loro cadaveri si dovrà lavare le vesti e sarà immondo fino alla sera. Tali animali riterrete immondi. (…)  perché sappiate distinguere ciò che è immondo da ciò che è mondo, l’animale che si può mangiare da quello che non si deve mangiare».

[La Bibbia, Levitico 11]

Dopo il debutto televisivo su Rai5 è andata in scena il 3 Maggio 2021 scorso al Teatro Argentina di Roma La metamorfosi di F.Kafka adattamento e regia di Giorgio Barberio Corsetti, un’opera che vuole mettere in luce le istanze del nostro presente evocandone le costrizioni, negazione e distacco.

Uno spettacolo che accompagna lo spettatore a molti di punti di riflessione e di spunto, primo fra tutti la situazione alienante del lavoro, la dissociazione che questi crea nell’ambito sociale eludendolo da quello intimo, familiare riducendolo a un essere “immondo”, orribile, spregevole come uno scarafaggio può essere. Il racconto La metamorfosi, insieme al romanzo Il processo, è l’opera di gran lunga più conosciuta di Franz Kafka.

Destandosi un mattino da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò tramutato, nel suo letto, in un enorme insetto. Se ne stava disteso sulla schiena, dura come una corazza, e per poco che alzasse la testa poteva vedersi il ventre abbrunito e convesso, solcato da nervature arcuate sul quale si reggeva a stento la coperta, ormai prossima a scivolare completamente a terra. Sotto i suoi occhi annaspavano impotenti le sue molte zampette, di una sottigliezza desolante se raffrontate alla sua corporatura abituale. Che cosa mi è accaduto?, si domandò. Non stava affatto sognando.”

Questo lo straordinario incipit de La metamorfosi. Gregor, che di mestiere fa il commesso viaggiatore, si risveglia trasformato in uno scarafaggio. Sul momento pensa di trovarsi in un sogno e cerca di addormentarsi sperando che al risveglio tutto quanto sia tornato normale. Ma quella sarà la sua condizione fino alla fine dei suoi giorni: un insetto con i sentimenti di un uomo. La storia esprime le difficoltà di comunicazione con la famiglia, l’oppressione della società dei padri e la solitudine dell’uomo. Ancor più che Gregor, ad essere colpita da questa mutazione è proprio la famiglia. Ed è quest’ultima a relegarlo nella sua angusta stanzetta, lontano da ogni sguardo. Sembra dirci che anche le persone più care e vicine non sono in grado di amare incondizionatamente. Perfino la sorella, che inizialmente è l’unica a sopportare la sua presenza, si stanca ben presto di questa situazione e propone ai genitori di eliminarlo. Quell’essere spregevole, viscido, abietto, motivo di vergogna per tutti loro, non è Gregor. Non merita più di essere chiamato per nome, non merita alcuna attenzione, deve solo essere schiacciato come uno scarafaggio. Non è fratello e non è figlio, è solo un insetto. Fragilità e inquietudini sono alla voce dell’intero spettacolo accompagnate da una recitazione marcata e tragicomica che induce il fruitore a carpire ancora più a fondo sia le intenzioni kafkiane che quelle del regista. Siamo tutti dentro “un sogno reale”, nell’effimero del teatro, ne il riuscito tra-sloco tra reale e non grazie alla recitazione in terza persona di Gregor, abilmente interpretato da Michelangelo Dalisi.

Questi ultimi ci fa osservare la realtà sporca, deformata attraverso gli occhi di un animale putrido, non più umano. Assaporiamo la depressione di chi una dignità la ha persa per mancanza di un contatto e per fame di umanità familiare mancata. La famiglia (Roberto Rustioni-il padre; Sara Putignano-la madre; Anna Chiara Colombo– la sorella Rita)perfettamente disegnata come nel romanzo kafkiano: una gerarchia fredda e distaccata che chiede soldi perché su questi vive e che sottolinea il rapporto malato e traumatico con il figlio colpendolo con la mela, simbolo del peccato originale, quel frutto che deteriorerà ulteriormente il corpo dell’insetto fino alla fine.

La scenografia, firmata da Massimo Troncanetti, vede un palco dorsale con piattaforma girevole già già in uso nelle commedie e nelle tragedie nei teatri ellenici (si chiamava ekkiclema) ed è costituita da una piattaforma circolare su ruote che gira secondo le esigenze di scena. Sulla piattaforma girevole sono montate generalmente più scene e questo dà all’installazione una valenza scenografica e drammaturgica particolare. In questo caso sono state montate soltanto due interni casa diversi tra loro: una MONDA, il soggiorno in cui si muovono padre, madre, sorella e alcuni affittuari. L’altra IMMONDA, la stanza di Gregor, o meglio, la stanza dello scarafaggio, di un esiliato dalla vita di un tempo, di un costretto a una realtà che non conosceva. Immondo come tutto ciò che non deve essere toccato, sfiorato minimamente. Immondo come lo sporco che si crea fuori nel mentre un’anima continua ad alimentarsi di tristezza, figlia di speranze assopite, ogni giorno, in preda alla debolezza. La stessa che una chiusura forzata da un nemico “immondo” ci ha costretti in un solo anno che sembra un’eternità. Quella che è stata la serratura nelle nostre case e stanze e che ha conosciuto il respiro di qualche balcone o di qualche finestra da cui mirare i ricordi di un’era passata e da cui assaggiare un’illusione di ritorno alla normalità. L’insetto muore e subito dopo c’è una sorta di ritorno alla vita, un paradossale lieto fine con i suoi genitori e la sorella che guardano al futuro nel MONDO che di puro ha solo l’apparenza ma che fa intravedere il marcio interiore di un distanziamento emotivo dettato da uno spirito di sopravvivenza, una sorte di “mors tua, vita mea”.

Perché è forse anche questo l’occhio di bue che il regista vuole accendere nelle monti degli spettatori a spettacolo concluso. Questo martellamento quotidiano che da mesi a questa parte ci assilla, ci tormenta e da cui, però, non riusciamo a trovare una soluzione per emergere dalle fognature di un’indifferenza umana, più forte di altri periodi. Quella mancanza di un abbraccio salvifico o di un conforto maggiore laddove un’anima, che per troppo tempo è stata rinchiusa per adattarsi al “nuovo”, che oggi come oggi deve morire.

Siamo forse esseri immondi, emarginati, soli?

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