RUMOR(S)CENA – GENOVA – In una sorta di sua trasfigurazione tra l’onirico e il metafisico, la memoria diventa a volte il luogo della realtà, capace cioè di paradossalmente enfatizzare, in uno psicologico rimbombo, il sentimento della lontananza e dell’assenza, che della realtà stessa sono il simbolo della irraggiungibilità, le metafore della sua inattingibilità. Il Giardino dei Ciliegi di Anton Cechov, nella, comunque molto fedele al testo, trascrizione scenica di Rosario Lisma vista al teatro Gustavo Modena, compie e rappresenta a mio avviso questa trasfigurazione, riconducendo e quasi imprigionando l’intera vicenda nella stanza dei giochi che apre e chiude il racconto drammaturgico cecoviano, e che richiama l’infanzia, anzi la nostalgia dell’infanzia.
Ma questa nostalgia, ha il suo centro nell’amore quale atto mancato, freudianamente inteso come suggerisce la sintassi scenica che al sogno si richiama, un atto mancato che nella sua essenziale primogenitura riassume tutti quelli man mano compiuti nel corso della nostra vita. La messa in scena dunque, di questa che è l’ultima opera di Cechov prima della sua prematura morte, rappresenta, nello sguardo di Rosario Lisma, una sorta di transito attraverso il quale il verismo intimo del drammaturgo russo approda ad una spiaggia quasi metafisica, non per contraddirlo peraltro, bensì per giustificarlo e completarlo.
Un approdo in cui ricadono suggestioni esistenziali e percettibilmente autobiografiche, come il recente film del francese René Féret fa ben intendere, al di là dei diversi esiti della sua propria storia, e che ne fanno non tanto un testamento involontario che riguarda il passato, quanto un lascito che è, per così dire, una rendita per il futuro estetico dell’arte e quindi per il nostro futuro. Ha scritto Peter Szondi, che di Checov ha profondamente trattato nel suo Teoria del dramma moderno: <<nei drammi di Cechov gli esseri umani vivono nel segno della rinuncia. Soprattutto li caratterizza la rinuncia al presente e alla possibilità di incontrarsi; la rinuncia alla felicità di un vero incontro…Rinunciare al presente significa vivere nel ricordo e nell’utopia; rinunciare a incontrarsi significa solitudine>>.
Così quest’ultima sua commedia in quattro atti, come l’ha lui stesso definita, rappresenta in fondo l’acquisita consapevolezza della tragedia che l’uomo vive, e che spesso, nell’eterno contrapporsi e intrecciarsi di comico e di tragico, nasconde appunto nel riso, quella della insuperabile frattura tra nicciana irriducibilità dell’esserci nel mondo e freudiana irraggiungibilità dell’amore come contatto con l’altro, necessario e insieme irrealizzabile. Temi questi che profondamente si intrecciavano nella cultura europea entro il cui orizzonte il nostro vive e matura la sua arte.
La messa in scena, drammaturgicamente forzando le apparenze naturalistiche della narrazione che incorporano comunque anche l’eco della allora crescente marxiana ‘lotta di classe’, porta dunque con sé la malinconia di un esistere che si ribalta nella continua fuga nel passato, ove solo sembra sia stato possibile vivere un sentimento sincero, un passato sognato come il futuro e quindi estraneo al mondo che il soggetto vive. In questo luogo del ricordo che è l’intero palcoscenico, un luogo che in fondo coincide con la mente stessa di Ermolaj Alekseevič Lopachin, figlio del servo prima e poi padrone di tutto, che così diventa, con singolare intuizione, il centro stesso del dramma ed il suo motore (alimentato quasi dall’intensa ed espressiva voce fuori campo di Roberto Herlitzka, il vecchio maggiordomo Firs qui già morto), un luogo popolato da spettri in cui precipitano i riflessi della vita e i suoi eventi, nascosti e protetti in un armadio enorme che ne custodisce il senso.
Alla fine però, venduto con l’intera proprietà e destinato all’abbattimento il giardino dei ciliegi all’argine del fiume che segna il transito verso la morte, quell’enorme armadio si apre e attraverso di esso ritornano i protagonisti che solo in quella stanza sembrano poter vivere, oltre il tempo che hanno attraversato e che li attraversa. Uno sguardo, quello di Rosario Lisma, interessante che dà anche il segno ad una recitazione, il cast è valido, in fondo anti-naturalistica, ovvero trans-naturalistica, ma capace di attrarre ed insieme estrapolare il senso del dramma, o quantomeno la suggestione che ne ha ispirato questa rappresentazione.
Si fa notare l’interpretazione che Milvia Marigliano fa di Ljuba, oltre l’immagine un po’ eterea che una certa tradizione ha consolidato, sottolineandone una fisicità, una sensualità dunque figurativamente essenziale. Uno spettacolo con qualche sospensione oltre il necessario forse, ma che man mano costruisce un climax che coinvolge, grazie anche ad una scenografia semplice ma profondamente significante nel suo nascosto simbolismo, una sorta di vuoto in cui tutto sembra precipitare.
Per quanto riguarda l’intento, condivisibile, di rileggere la contemporaneità della drammmaturgia, è efficace nell’uso di significativi oggetti di scena, il telefonino ad esempio, ovvero nei costumi, in cui il segno della classe sociale è evidente, meno efficace in qualcuno, non tutti, degli inserti musicali da teatro-canzone. Una coproduzione teatro pubblico e teatro privato, al teatro Gustavo Modena di Genova Sampierdarena dal 28 febbraio al 12 marzo. Buona l’accoglienza.
Il giardino dei ciliegi. Commedia in quattro atti di Anton Cechov, adattamento e regia Rosario Lisma, con Milvia Marigliano, Rosario Lisma, Giovanni Franzoni, Eleonora Giovanardi, Tano Mongelli, Dalila Reas e con la partecipazione in voce di Roberto Herlitzka, scene Federico Biancalani, costumi Valeria Donata Bettella, luci Luigi Biondi, produzione Teatro Nazionale di Genova, Tieffe Teatro Milano, Viola Produzioni.
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