L’esercizio critico dovrebbe proseguire, fuori dal palcoscenico, con quella comprensione collettiva condivisa in platea. Lo spettatore non solo resta coinvolto dalla rappresentazione, ma avverte con gli altri spettatori un comune intendere, una pratica di percezione reciproca. Alimentata dalla diversità di resoconti, dal comprendere la comprensione altrui. Tanti pubblici per quanti individui stanno a guardare. In contatto tra loro, mediante il palcoscenico.
Quando lo spettacolo nutre e crea emozione, l’esercizio critico allora dovrebbe estendere, con il linguaggio espressivo proprio, quell’atmosfera, quella dimensione sottesa dal buio di sala. Diffonderla fuori dal palco, invitando ancora altra gente a farsi “smuovere” rimanendo sulle poltrone. A farsi lasciare tracce profonde, sottocarne. Saverio La Ruina dimostra come bastano voce, corpo, tono.
Su “La Borto”, premio Ubu (miglior testo italiano) e Premio Hystrio (alla drammaturgia) 2010, se n’è scritto a iosa. Qualcuno gli grida dal parterre “sei il migliore”, la critica, tutta, l’ha osannato. Compito arduo riuscire a trasmettere, con file di parole messe insieme a voler tradurre, qualcosa che si codifica nella coscienza, nello spirito, nell’umore di chi la guarda.
Si potrebbe scrivere ad esempio dei dettati civili della rappresentazione: mai affrontati di petto con il paternalismo del teatro impegnato, mai urlati a slogan d’etichetta politica, piuttosto suggeriti dalla narrazione, dai piccoli e grandi dettagli tra la matassa narrativa che si disegna in scene e scenari invisibili. Anima, la narrazione, di una drammaturgia minuziosa, di altissima valenza teatrale, la parola recitata tramutata in partitura scenica. Come fosse realmente un tracciato orale verbalizzato dalla persona, non dal personaggio, a cui la funzione scenica fa da abbigliamento per soddisfare il patto tacito corrisposto in teatro.
Dalla prima all’ultima battuta, per quasi due ore di spettacolo, l’attore La Ruina mette la pelle del personaggio che figura, una donna, un’anziana donna di paese, soggetto di un contesto meridionale rintracciabile in una dimensione più universale, più comune, più macrocosmica, de-localizzata. Dal soggettivo all’oggettivo, per un’universalità data innanzitutto dall’imprinting testuale, un dialetto non circoscritto territorialmente, più che altro un linguaggio (d’uso) assumente caratteri di riconoscibilità ampia, una sorta di grammelot più vicino all’ufficiale che all’idioma puro. Una dialettica che detta ritmo, azione, temporalità, immagine. Scene vivificate immaterialmente, ordinate in sequenze non immediatamente successive l’una all’altra, scomposte e ridisegnate, piuttosto, tramite artifici affabulativi. Ricamate dalle composizioni sonore di Gianfranco De Franco, in spalle poco dietro al proscenio sinistro: il suono dell’interiore, dell’intimo, tutt’altro che tappeti sonori. Il colore delle parole e delle immagini lasciate intravedere.
Si potrebbe scrivere della corpulenza della storia: una donna concessa in sposa per imposizione familiare, oggetto di riscatto e di approvazione sociale nel gioco dei ruoli in una dimensione di tradizionalismo obsoleto (eppure così maledettamente attuale), strumento di soddisfazione personale e sessuale, genitrice contro volontà. Destinata ad un marito invalido che la costringe, cinicamente, ad una vita di stenti e sopraffazione. Abbandonata nella solitudine di donna subordinata al maschilismo imperante della societas patriarcale di un Sud arcaico ma tristemente “vicino” (se non altro nell’educazione tramandata da generazione a generazione). Portavoce di una condizione condivisa e taciuta. Traccia per disegnare uno strato intero di dinamiche sociali accostabile, nella maniera, ad un neo-realismo scenico monumentale e d’oggettivazione drammatica incisiva. Il corollario di storie collaterali al personale della protagonista è affresco di un humus specchio di una socialità, contemporanea, diretta conseguenza del tracciato storico proposto dalla scena.
Si potrebbe scrivere dell’interpretazione attorale: l’espressività di una potenza interpretativa dosata in frammentari atomi di gesto, forma e mimica condensati a supporto della struttura drammaturgica. Che non lasciano scampo all’autoreferenzialità o alla ricerca dell’effetto apparente, a vantaggio del servizio all’approdo verticale, all’efficacia traspositiva. Segno di estrema dedizione al risultato, all’approdo, all’arrivo. Un ventaglio di soluzioni in cui gesto e corpo vengono sottratti all’esposizione stucchevole per destinarsi alla penetrazione, al comprensibile coinvolgente, all’emozione.
L’emozione provata dal primo all’ultimo minuto, alla quale accostarsi da molteplici punti di vista, infinite prospettive. Un racconto diverso per ognuno degli spettatori, intrecciato di fondo da un comune senso di comprensione. Nel dettaglio, si può fare caso gradevolmente alla trovata di tenere in sospeso l’uditore in momenti in cui la narrazione giunge ad un punto esplicativo rimandando la compiutezza, oppure alla reiterazione di strutture semantiche funzionali alla scorrevolezza, o a materiali vocali disposti in maniera scandita nell’esposizione, o ancora alla caratterizzazione del personaggio che assume sembianze ben definite a cui lo spettatore si “affeziona”, ai respiri concessi da una sottile ironia collante dell’opera, alla mimesi totale di La Ruina. Si potrebbe scrivere ancora ma basterebbe fermarsi a parlare di impatto emotivo. A scena nuda, senza sipario né quinte, né entrate e uscite di scena. Una sedia, un corpo, una voce, un attore, un musicista. Emozione. Pura.
“La Borto”
Di e con Saverio La Ruina
Musiche composte ed eseguite dal vivo da Gianfranco De Franco
Disegno luci Dario De Luca
Produzione Scena Verticale
(crediti fotografici di Angelo Bianco)
Visto al teatro Morelli di Cosenza il 28 02 2014
Rassegna “More Fridays – atto III Focus Calabria”