Teatro, Teatrorecensione — 02/12/2014 at 20:44

“BiT”: la cacofonia della ripetizione

di
Share

PARIGI – C’è il senso della scoperta e dello stupore quando si vede una nuova creazione di Maguy Marin. Sì è portati a pensare che abbia qualcosa di già visto, che ti rimandi all’ultimo suo lavoro, che rappresenti elementi visibili di continuità. Da spettatore, da amante del lavoro di Maguy, ti trovi invece in una costante condizione di dislocamento, di rottura, di riassemblamento delle immagini, in una forma che forza costantemente il contenuto, rivelandone limiti e prospettive. Limiti e prospettive che sono della Danza e di ciò che essa racconta, che potremmo banalmente definire la vita.
BiT inizia in quest’opera di spiazzamento fin dal principio, dal suo essere titolo che si presta, in francese, a un doppio senso: bit come unità di misura della capacita di immagazzinamento dati nei computer e, ormai, nei cellulari; BiT come contrazione di bite, in francese, con la stessa pronuncia. Parola che significa pari pari Cazzo. E’ fra questi due estremi che si gioca l’essenza di questa creazione, magnifica nell’esecuzione e nella riuscita.
BiT inizia nel buio o dal buio, inizia di nuovo con la danza, per una coreografa diventata celebre anche perché, dicono, non fa più danza. Qui la danza si dà come momento d’insieme, unico e ripetitivo, che si costruisce attorno alla riproposizione di un segno popolare, i danzatori che ballano uno di quei balli di tradizione, la “farandole” – girandola in italiano -, legati l’un l’altro per le mani, costruendo all’interno del movimento figure nuove e giustapposte che possono ricordarci il sirtaki e anche, perché no, la tarantella.

salvo gennuso 2

E’ il ritmo che muove o fa muovere i sei performers, Ulises Alvarez, Kaïs Chouibi, Laura Frigato, Daphné Koutsafti, Mayalen Otondo, Ennio Sammarco. E’ il ritmo e la volontà di abitare la spazio. Vengono fuori da nascondigli che sono sei piani inclinati, grandi tavole praticabili lunghe circa tre metri, forse più, che occupano totalmente la scena. Sono un rifugio di beckettiana memoria, un nascondiglio, un luogo da scalare. Forse stanno lì a raccontarci che tutto lo spazio è inclinato, è un luogo formato in ascensione, qualcosa che dovrebbe portarti verso l’alto, cosa sia questo “alto” non è dato di sapere. I danzatori danzano costruendo un ritmo ossessivo, a volte la danza si spezza e ridiventano dei bit, delle molecole impazzite che sbattono le une contro le altre, per poi riformare la catena, forse una sorta di catena della vita, una mezza elica di DNA, la loro stessa composizione nella figura alterna l’elemento maschile al femminile.

A volte si fermano per battere il tempo con le mani, per darsi ancora il senso del ritmo: ritmo del corpo, dello spazio, della danza, della vita? Anche questo non è dato saperlo, sembra un’azione insensata, come è insensato danzare su quelle tavole che occupano la scena con un’inclinazione di almeno 45 gradi, e ti chiedi, se ti fermi a pensare, come facciano a danzare su quel piano inclinato, salendo verso l’alto, per poi precipitare o semplicemente scomparire verso il basso, dopo che si è raggiunta la vetta. La musica materica e industriale di Charlie Aubry disegna un decor che non si accompagna mai al gesto, ma vi si giustappone, costruendo un’immagine del brusio del mondo, delle molte parole dette, delle lotte, delle rivolte, o, invece, determinando un ambiente che ti riporta all’inferno dantesco, i danzatori immagini dei dannati, costretti a danzare incessantemente, costretti a percorrere una strada verso l’alto, dove li aspetta il vuoto, sfidando con la loro danza i precetti della fisica che li vorrebbe precipitarsi a terra, soprattutto le donne che calzano scarpe con i tacchi alti. Ma quest’immagine dell’inferno, seppure è data persino dalla penombra, un inferno beckettiano più che dantesco a pensarci bene, pare sia negata dal ritmo e dalla voce di Carmelo Bene di cui si sente recitare il canto 24 del Paradiso.

Ma poiché il senso della creazione in Maguy è il senso stesso della storia che stiamo vivendo, queste immagini che abbiamo pian piano costruito nella nostra testa, lasciano il posto a un’orgia collettiva, con corpi che scivolano da uno dei piani inclinati, su un tappeto rosso, ed è tutto sangue, tutto violenza, non c’è amore in quei corpi che si possiedono con furore, c’è la violenza del rosso di Caravaggio, delle sue ombre in pittura, e la Marin ne costruisce un riflesso dove Caravaggio serve solo da guida allo spettatore, ma è la coreografa che dipinge sulla scena, grazie a questi corpi impazziti, che mimano atti sessuali nella nudità quasi totale, velata da drappi leggeri che lasciano intravedere quel che la luce permette all’occhio di osservare. Poi è la morte, uomini incappucciati che buttano in una fossa comune, è questo che si trova al sommo di quei praticabili?, un corpo morto, uomini che rimandano a dei monatti, alla vita come peste, ancora una volta al Beckett di Quad, in cui tutto si muove senza un senso, restituendoci l’idea di un ritmo folle fatto di incroci.

Le tre giovani donne, giovani e belle, del tutto estranee al corpo della scena, fanno comparsa tenendo fra loro un filo, come timide parche, compaiono e scompaiono, sulla scena di uno stupro che cinque monatti compiono su una delle danzatrici. Poi vermi o salamandre che strisciano, che vorrebbero battersi, che si sfidano, che scompaiono. Vermi, o salamandre o vermi che si muovono come salamandre, o pur sempre uomini dannati a muoversi come vermi.
Poi è di nuovo danza, la danza che apre lo spettacolo, ma questa volta a danzare non è gente comune, l’abito rivela o segna una condizione sociale che rappresenta l’alta borghesia, gente elegante vestita a festa, ma che ripete la medesima scena, il medesimo ballo, fino a che i piani inclinati, separati fin dall’inizio da spazi vuoti, diventano un unico luogo compatto, i danzatori perdono di nuovo la loro identità, in un abito che ci rappresenta tutti, ballano senza fine, si muovono al ritmo di un comando interno, di un comando esterno, esteriorizzano il ritmo ancora una volta nel battito delle mani, come a cercare una comunanza fra loro, ancora una volta danzano sui piani inclinati, percorrendoli verso l’alto, ancora una volta ridiventano particelle impazzite che rompono la catena, si attraggono e si respingono riformando la catena, ancora una volta si muovono insensatamente verso l’alto, ma stavolta verso una fine che è un precipizio: cadono, uno dopo l’altro, l’ultimo si scaglia in un balzo e nel suo protendersi nel vuoto la luce si spegne, lasciandoci quest’immagine immensa negli occhi.

C’è alla fine un filo che lega gli spettacoli di Maguy: e non è la continuità delle forme e dei gesti. La genialità della coreografa francese sta nel produrre un movimento sempre nuovo e mai scontato. E questo spiazzamento prende il pubblico a cui manca il terreno su cui appoggiare le proprie certezze. Ma se osservi e rifletti, siamo dentro una linea, nel percorso di creazione di Maguy, che da May B porta a Umwelt, a Salves, a Faces fino a BiT. E’ l’umanità che la Marin racconta, precedendo, come fanno tutti i grandi, i tempi.
Il pubblico del Teatro Des Abesses, dove BiT è stato programmato all’interno del Festival d’Automne, ha riservato lunghi applausi, tributando un’ ovazione ai danzatori, magnifici nel danzare laddove sembrerebbe impossibile danzare.
BiT, c’est tout..

Visto al Festival D’Automne Theatre des Abesses di Parigi il 15 novembre 2014

(immagine di Didier Grappe)

Share

Comments are closed.