Teatro, Teatro recensione — 02/08/2022 at 13:15

Nella notte nera come il nulla Alberto Astorri omaggia il fanciullino Pascoli

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RUMOR(S)CENA – FIGLINE DI PRATO – In un campo di olivi arsi dal sole cocente di luglio, in prossimità del cosiddetto antro della strega, va in scena “Piangi Pensa Dormi”, uno spettacolo di teatro escursione di e con Alberto Astorri, compreso nel cartellone del Monteferrato Festival organizzato alla cava di marmo verde di Figline di Prato.

Il testo omaggia la figura di Giovanni Pascoli, di cui ricorre proprio quest’anno il centenario dalla morte, combinando la prosa ai suoi componimenti poetici, tratti dalle raccolte Myricae (1891-1903) e Canti di Castelvecchio (1903).Il racconto è introspettivo e riflessivo sul mondo interiore del poeta esponente del Decadentismo italiano ed offre un ritratto inedito e scuro della sua personalità.

foto di Diego Blasi

“Nella notte nera come il nulla” assistiamo immediatamente ad una regressione: Astorri in scena, sotto un ciliegio maestoso, illuminato da poche luci e da una strobosfera, torna ad essere quel fanciullino di undici anni, rimasto all’improvviso orfano del padre Ruggero, ucciso in circostanze ignote nella notte di San Lorenzo del 1867. Del padre assume poi lui stesso il ruolo, prendendosi cura della madre e delle sorelle, per un senso di responsabilità e di colpa. Agli animali reali e immaginati (l’usignolo, il bove, il cane), i cui suoni sono riprodotti come parte integrante della scenografia, il Pascoli confida il suo lutto irrisolto, la solitudine provata per non essersi mai sposato e riporta a galla i fantasmi del proprio inconscio.

La figura del padre rivive soltanto nella dimensione del ricordo e nella corsa di quella “cavallina storna” il cui nitrito si trasforma poi nell’ “eco di un grido che fu”, strozzando in gola il pianto di un adulto rimasto mentalmente intrappolato nell’ideale di un passato che non può tornare.

Nella parte centrale emerge una descrizione della vita campestre tramite le allitterazioni e le onomatopee per cui è famosa la poetica pascoliana (il “fru fru tra le fratte”, il “gre gre di ranelle”), a cui si unisce il tema del nido familiare, ovvero la casa bianca bianca che come un occhio appare e scompare d’un tratto nella notte nera. Astorri alterna i due personaggi, l’adulto solo e straziato, ed il bambino che vede il mondo con gli occhi della meraviglia e vorrebbe recuperare quel sogno di infanzia perduta.

foto di Diego Blasi


Nel finale si palesa anche la madre come proiezione dell’inconscio, di cui all’inizio si percepisce solo la voce che chiama “Zvani”, appellativo del poeta da piccolo. Poi ecco la sua figura nera, che viene dalla campagna con una lanterna in mano ed intona un canto. Senza essere vista e sentita, accarezza il figlio addormentato e la sua “voce di tenebra azzurra” che riecheggia sul far della sera porta un senso di serenità alla terra livida e al cielo ingombro, in cui restano solo “cirri di porpora e d’oro” e come un balsamo purificatore lenisce il dolore del poeta, che può mettere fine al suo conflitto interno e far pace tra il sé adulto ed il sé fanciullino che fu.


Visto al Monteferrato Festival di Figline di Prato il 19 luglio.

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