Recensioni, Teatro lirico — 31/10/2022 at 12:26

Specchio di amore e di amanti: Béatrice et Bénédict

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RUMOR(S)CENA – GENOVA – Béatrice et Bénédict è una Opéra-comique che ha esordito nel 1862, l’ultima di un Hector Berlioz al tramonto della creatività e della vita, ed è ispirata anzi, come scrive il suo autore che è anche estensore del libretto, imité dallo Shakespeare di Molto Rumore per nulla, rispetto alla quale si percepisce una progressiva e programmatica dissoluzione dell’impianto narrativo intesa, io credo, a liberare quella sorta di senso profondo che la sintassi letteraria custodisce, suggerendolo, e che la trama musicale può diversamente definire.

Una siffatta dinamica liberatoria, anticipata nella bellissima Ouverture, è chiaramente e progressivamente percepibile nello sviluppo di questa breve prova di teatro musicale, che in un certo senso scompone la solennità dell’opera classica, senza dimenticarla, proprio nella sua, in senso lato, povertà lessicale che fa della ripetizione una sorta di energia che sostiene il respiro dei diversi temi musicali, sempre di grande rigore.

Quasi che, come ci dicono gli studiosi più attenti, il temperamento innovatore del compositore francese avesse trovato, senza attenuarsi nella sua spinta interiore, una certa quale composizione all’interno di un componimento più ordinato e strutturato. Si tratta ovviamente di una riflessione che inevitabilmente nasce da esiti critici più legati allo sviluppo di una teatralità dello spettacolo che sembra trovare, paradossalmente, un efficace supporto scenico quasi a prescindere dallo stesso dramma che intende rappresentare; ciò senza dover ancora ricordare le efficaci considerazioni a suo tempo elaborate da Edoardo Sanguineti intorno al “Teatro con Musica” ovvero al “Teatro senza musica”.

In proposito questa opéra-comique va sostanzialmente al dunque, e la musica spesso lo può fare, senza doversi occupare e senza rimanere imbrigliata negli artifizi letterari e drammatici, sorta di trappole esplosive disseminate con genialità da Shakespeare sul percorso narrativo, e il nucleo essenziale che così viene svelato è non tanto l’amore, ma l’amore allo specchio di sé, ovvero, come direbbe Rènè Girard, l’inevitabile aspetto mimetico dell’amore stesso, incarnato appunto nella contrapposizione drammatica e musicale tra Beatrice e Benedetto (due personaggi tra gli altri in Shakespeare, ma che qui titolano l’opera e ne sono i protagonisti).

Una sorta di amore agonistico (“un amore che ferisce soltanto a sentir dire”) a tradire un desiderio che può definirsi solo in relazione all’altro, e anche agli altri (famiglia o società che siano), un agone ed un agonismo rispetto al quale la musica di Berlioz, con le sue arie, i suoi raffinati contrappunti e i suoi duetti, cerca (o trova?) una qualche composizione. Scrive infatti Girard al riguardo: <<Una reciprocità positiva richiede una forza interiore che al desiderio mimetico manca. Colui che vuole amare veramente, deve evitare di sfruttare “egoisticamente” il desiderio dell’altro>>.

Se, come di consueto, la direzione e l’orchestrazione del maestro Donato Renzetti è capace di rendere in profondità, al colto e all’inclita e dunque anche ai meno esperti, lo spessore musicale e la varietà dei temi della partitura, la regia teatrale di Damiano Michieletto è esplicita nel mettere in scena quelle che lui individua come le intenzioni estetiche e spettacolari del compositore francese, creando una scena di continui doppi e contrapposizioni, tra regole e libertà, tra civiltà ed eden perduto, tra Eva ed Adamo (bravi i due mimi) e Béatrice e Bénédict-l’homme mariè.

È una regia di efficace prossemica e di grande movimento, capace di accogliere, ospitare e valorizzare la partitura quasi ne fosse una eco che un po’ alla volta si materializza magicamente davanti ai nostri occhi e di cui l’ambiente scenografico (tra doppie scene, macchine e viaggi figurativi dal passato al nostro presente) è esito significativo ed insieme efficace contrappunto estetico. Non è una rappresentazione facile, come dimostra il suo sostanziale oblio dopo il successo iniziale, soprattutto per lo spettatore che fatica ad assuefarsi in un ambiente sonoro complesso e che, pur anticipatamente custodito nella bella ouverture, si svela un po’ alla volta accompagnandoci a quello che appare un happy end con la felicità del dubbio.

Decisamente buono il giovane cast dei protagonisti, in naturale evidenza Benedetta Torre (Héro), Julien Behr (Bénédict) e Cecilia Molinari (Béatrice), a suo agio nell’alternanza canto/recitazione tipica dell’opéra-comique ottocentesca. L’ottimo coro del Carlo Felice ne costituisce uno sfondo capace di sostenerlo sempre, sia nell’uno che nell’altra. Opera che apre la stagione del Teatro Carlo Felice, che ancora una volta è stato capace di scegliere qualcosa di non usuale, recuperando dall’oblio spettacoli comunque interessanti, una politica che il Sovraintendente Claudio Orazi promuove da ormai qualche anno.

Alla prima del 28 ottobre la sala era piena in tutta la sua capienza e, tra autorità ed esponenti della Società, spiccavano bellissimi e numerosi volti, tra l’incuriosito e l’entusiasta, di adolescenti anche molto giovani la cui presenza è incentivata dalla Fondazione con una favorevole politica dei prezzi ed il collegamento con le scuole della città. Anche a questo va dato il giusto risalto e apprezzamento.

Visto al Teatro Carlo Felice di Genova il 28 ottobre 2022

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