Recensioni — 23/01/2023 at 09:03

Chi ha paura del lupo cattivo o di Virginia Woolf…

di
Share

RUMOR(S)CENA – PISTOIA – Un palcoscenico con vista sull’interno di una casa borghese, con pochi oggetti di arredamento vintage, una poltrona, una lampada, un armadio per alcolici e dei gatti di porcellana. A dividere lo spazio scenico, un pianoforte verticale nero che viene suonato da una donna, vestita con un completo di velluto verde e con parrucca blu, che ricorda un’attrice di avanspettacolo, mentre un uomo elegante nel suo completo borgogna la osserva in disparte. Attraverso le strofe di Party girl, la protagonista racconta una parte di se stessa, descrivendosi come una donna fragile e selvaggia ed anticipa il successivo e grottesco teatro nel teatro, espressione di finzione, fantasia e liberazione personale.

Nell’opera teatrale del drammaturgo americano Edward Albee, che ha debuttato a Broadway nel 1962 e trasposta sul grande schermo con Liz Taylor e Richard Burton per la regia di Mike Nichols nel 1966, troviamo una coppia borghese anni ‘50 che vive nel New England. George (Vinicio Marchioni) è un professore di storia insoddisfatto ed è sposato con Martha (Sonia Bergamasco, premio Ubu nel 2022), figlia del rettore che ha fondato il college dove lui insegna. A seguito di una festa presso il college, Martha rivela al marito di avere invitato per un ultimo drink una giovane coppia, Nick (Ludovico Fedegni, premio Ubu under 35 nel 2022) professore di biologia insieme alla moglie Honey (Paola Giannini).

chi ha paura di Virginia Woolf foto di Brunella Giolivo

La vicenda della pièce teatrale in tre atti, qui con la traduzione di Monica Capuano e la regia di Antonio Latella, è un riflesso dell’infanzia e dell’esistenza dell’autore. Abbandonato dai genitori biologici, viene poi adottato da una coppia di teatranti, dai quali non riceve amore e conforto. La scoperta, una volta cresciuto, che i presunti genitori non sono quelli biologici è per Albee motivo di liberazione più che di disperazione. Questo vissuto tragico e liberatorio al tempo stesso prende forma nel testo, in cui Martha e George non hanno potuto avere un figlio e allora – come scopriremo nel finale, dal sapore di teatro dell’assurdo – lo hanno partorito come creazione della loro mente, dove continua a crescere ed esistere, muto e lontano da loro, che sono un padre fallimentare ed una madre castrante. Nel loro gioco, che serve come puntello al matrimonio altrimenti in crisi, vigono delle regole puntuali, tra cui la regola aurea di nominare il figlio Jim soltanto in privato e di non condividere l’esperienza della genitorialità in pubblico.

chi ha paura di Virginia Woolf foto di Brunella Giolivo

Nel corso del party notturno, che dal college si sposta nel salotto dei due coniugi, il gioco che George e Martha tendenzialmente fanno tra loro viene allargato alla partecipazione dei due giovani sposi.

Chi ha paura di Virginia Woolf?” è un dramma familiare e generazionale. Il tempo e lo spazio di questa opera sono dilatati e fluidi: nel salotto viene messo in scena un gioco al massacro caratterizzato da un linguaggio nevrotico e manipolatorio, in cui i coniugi – tra sorrisi e risate amare – mettono in scena, di fronte agli occhi attoniti dei loro ospiti, una rappresentazione di “guerra totale”, in cui tra danze sensuali e fumi dell’alcool, emergono le ombre dei protagonisti, i sogni infranti, le aspirazioni trasformate in frustrazioni vomitate in faccia all’altro con un resoconto denigratorio al solo scopo di fare del male, rovinare e distruggere. L’inettitudine di George, che vive all’ombra del padre-rettore – figura soltanto nominata ma la cui presenza aleggia per tutto il tempo – contrasta con la nevrosi di Martha, che si divide tra la dipendenza dall’alcool e la dipendenza dal sesso.

chi ha paura di Virginia Woolf foto di Brunella Giolivo Sonia Bergamasco

Ad assistere al gioco dei due giocatori esperti sono Nick e Honey, che potrebbero essere proiezioni dell’inconscio dei due protagonisti e quindi irreali. Inizialmente super partes i due giovani vengono gradualmente coinvolti nel massacro, un gioco di specchi o un delirio a due elevato al quadrato. Inconsapevoli di come si gioca e delle strategie verbali da utilizzare, i due giovani prima vengono massacrati e poi finiscono per trasformarsi in un’appendice posticcia o specchio dei due padroni di casa, coi quali entrano in risonanza emotiva, per passare a farsi del male a vicenda. Il dramma quindi è anche rappresentativo di due generazioni a confronto: Martha e George sono stati giovani e pieni di sogni come i loro giovani ospiti e li travolgono perché questi ultimi sono portatori di una visione di futuro, che mal si concilia con una prospettiva storica e passata.

Il linguaggio è una roccaforte e ogni personaggio ha il suo come arma personale. Alle architetture ed ai virtuosismi verbali di George si alternano il linguaggio volgare di Martha, le affermazioni affabulatorie del rampante Nick e le parole trasognate e ingenue di Honey.  Il linguaggio è anche portatore di un ritmo come se le parole e la musica suonata dal juke box e dal pianoforte appartenessero ad una stessa partitura.

chi ha paura di Virginia Woolf foto di Brunella Giolivo

Le parole rimbalzano sulle pareti coperte da drappi di velluto e restano imprigionate, come in una trama linguistica, nello spazio claustrofobico del salotto, da cui c’è soltanto una via di uscita che passa attraverso l’armadio, dove è possibile anche rimanere semplicemente in ascolto per riprendere fiato e ricaricare le energie prima di gettarsi nuovamente nella diatriba verbale. Attraverso le schermaglie filtrano due importanti temi che uniscono i quattro personaggi, ovvero eros e thanathos. L’eros in crisi del matrimonio di Martha e di George viene mitigato dalla presenza-assenza del figlio mai nato, che viene fatto morire per finzione scenica. Anche nel matrimonio di Nick e Honey non c’è nessun figlio e i due si sono sposati per una gravidanza isterica di lei e per interesse economico da parte di lui. L’assenza di un figlio, testimone di esperienze da tramandare, è esemplificativo in entrambe le coppie di una sterilità culturale e sociale e di un sogno americano irrealizzato.

Per ultimo, il titolo. Albee prende a prestito il nome di Virginia Woolf, autrice visionaria e rivoluzionaria, che ha cambiato il modo di scrivere ed ha introdotto un prototipo femminile emancipato. La filastrocca del lupo cattivo (wolf, appunto), ripetuta a turno dai vari personaggi seppur con toni e intenzioni differenti, è un pretesto per affrontare la paura del lupo, che nell’immaginario turba il sonno dei bambini oppure si trova fuori nel mondo pronto ad aggredire. In una società in cui homo homini lupus, vocata al cinismo e al desiderio di prevaricazione, l’autore vuole dirci che i suoi personaggi hanno paura di confrontarsi con la realtà, sono mostri umanoidi ben sintetizzati dai simulacri dei gatti di porcellana, che si azzannano tra loro e vivono continuamente nell’ambivalenza di desiderio e odio. In questa violenza estremizzata nessuno è vincitore: quando i giovani coniugi abbandonano la casa, Martha e George restano di nuovo soli, a fare i conti col loro amore, destinati ad amarsi e odiarsi all’infinito, e ad ammettere di avere paura di Virginia Woolf. Perché alla fine, proprio come Martha e George, il lupo cattivo possiamo esserlo anche noi.

chi ha paura di Virginia Woolf foto di Brunella Giolivo

Visto al Teatro Manzoni di Pistoia il 22 gennaio.

Chi ha paura di Virginia Woolf di Edward Albee, traduzione Monica Capuano, regia Antonio Latella, con Sonia Bergamasco, Vinicio Marchioni, Ludovico Fededegni, Paola Giannini, dramaturg Linda Dalisi, scene Annalisa Zaccheria, costumi Graziella Pepe, musiche e suono Franco Visioli, luci Simone De Angelis, assistente al progetto artistico e foto di scena Brunella Giolivo, assistente volontaria alla regia Giulia Odetto, documentazione video Lucio Fiorentino, direttore di scena Gianni Bernacchia, capo elettricista Simone De Angelis, fonico Gianluca Costanzi

Share
Tags

Comments are closed.