Recensioni — 19/10/2021 at 09:56

La morte in erezione: Cleopatràs di Valter Malosti e Anna Della Rosa

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RUMOR(S)CENA – TORINO – Mentre scende negli abissi dell’Inferno, Dante incontra numerosi dannati, ma solo di pochi riferisce i ricordi, le passioni e i discorsi. Non fa eccezione la terribile scesa al secondo cerchio infernale, descritto nel libro V della Divina Commedia e in cui vengono «…dannati i peccator carnali, / che la ragion sommettono al talento» (vv. 38-39). È noto, infatti, che Dante ascolti il lamento degli amanti Paolo e Francesca, mentre tutt’intorno infuria una bufera in cui i lussuriosi e le lussuriose lanciano «le strida, il compianto, il lamento; / bestemmian quivi la virtù divina» (vv. 36-37). Accenna, però, anche ai «lai» di altre «ombre» (vv. 46-49). Con un singolo verso, scritto quasi di sfuggita, Dante scrive «poi è Cleopatràs lussurïosa» (63), senza nulla dirci sul contenuto delle sue grida pietose e delle sue bestemmie. Solo nel Paradiso ricorda ancora la regina d’Egitto, alludendo alla sua fuga da Ottaviano nel mezzo della battaglia di Azio e il suicidio per il morso di un serpente velenoso (vv. 76-78: «Piangene ancor la trista Cleopatra, / che, fuggendoli innanzi, dal colubro / la morte prese subitana e atra» (76-78). Il “piangene” sottolinea che Cleopatra ancora si lamenta qui e ora della sua sorte, che il suo inferno consiste nel ricordare in eterno la sua disfatta e i suoi amori perduti.

Cleopatras-Anna Della Rosa © Tommaso Le Pera

A colmare il vuoto dantesco interviene Cleopatràs di Giovanni Testori. Si tratta del testo di apertura della trilogia Tre lai, che prosegue con il lamento di Erodiade (Erodiàs) e si chiude con il pianto di Maria di Nazareth sul Cristo (Mater Strangosciàs). Il titolo di questa prima parte del progetto poetico si pone in continuità evidente con Dante. Esso cita, infatti, il v. 63 del canto V dell’Inferno in cui la “a” finale del nome di Cleopatra ha accento grave. L’opera Cleopatràs getta pertanto il lettore dentro al girone infernale, lo costringe a sentire il lamento di Cleopatra su cui Dante ha preferito glissare e non curarsene. Quel che è più interessante è che i versi di Testori ci mostrano che la donna non intona versi meno pietosi di quelli di Paolo e Francesca, né una storia meno esemplare di come le lusinghe della lussuria possano essere espressione di un amore alto, di un’anima che si è dannata per troppa generosità e per ambizioni di grandezza.

Cleopatras-Anna Della Rosa © Tommaso Le Pera

Ora, lo spettacolo omonimo Cleopatràs con la regia di Valter Malosti e l’ottima interpretazione di Anna Della Rosa ripercorre esattamente l’itinerario testoriano, dando concretezza drammatica ai versi insieme sontuosi e osceni di questo primo capitolo dei Tre Lai. Il testo di Testori è anzitutto recitato nella sua interezza e senza censure. Non si tace, in altre parole, che la regina Cleopatra ha fatto “tirare” a sé gli «augelli» degli uomini del suo tempo, incluso il suo amato Antonio (Tugnàs) con cui «ciavava e ciavava», mentre costruiva l’imponente impero egizio. La donna non ha paura di risultare scabrosa e parla con il piglio da one-woman-show direttamente agli spettatori che siedono di fronte a lei. Sin dall’inizio dello spettacolo, infatti, ella si presenta con il microfono in mano, con cui sembra quasi a tratti farci l’amore, più che usarlo per recitare. Cleopatra pare usarlo da sostituito dell’«augello» e rivivere con la memoria i concreti atti di sesso anale coi suoi molti amanti. Gli amori lussuriosi che hanno dannato la donna non sono così giustificati con finto moralismo, né respinti con pentimento. Ci si potrebbe anzi azzardare a proporre che l’ombra scenica di Cleopatra vuole fare l’amore con gli uomini e donne che la ascoltano in platea, anche se la sua consistenza spettrale impedisce di compiere l’atto propriamente fisico. Il suo strumento di piacere non è più il corpo. Esso si è tramutato nella parola che si fa poesia.

Cleopatras-Anna Della Rosa © Tommaso Le Pera

Ma la scena ha anche bisogno di essere vivificata da un agire, non solo dai versi di Testori che invadono lo spazio e lo squassano con la loro sonorità potente. Ecco allora che la Cleopatra di Malosti entra in scena con una bottiglia di vino, per stordirsi e trovare il coraggio di parlare, oltre che dei suoi amori appassionati, anche di una presenza ben più inquietante. Accanto alle memorie dei corpi che ha amato e delle imprese che ha realizzato in vita, si affaccia lo spettro della morte a disturbarle e infrangerne l’incanto: una forza che ricorda come tutto ciò che viene amato/costruito è destinato alla dissoluzione e che oggi pretende come suo tributo la stessa Cleopatra. La donna ripete ritualmente ogni sera il suo suicidio e pertanto deve perdere ogni volta la sua lucidità, o dimenticare il suo amore carnale per la vita che, altrimenti, sarebbe molto difficile da abbandonare.

Un’altra aggiunta vivificante della regia scenica di Malosti consiste nella materializzazione della morte stessa, più precisamente nel «ragazzin» (Marcos Vinicius Piacentini / Aron Tewelde) che porta il cesto con il serpente fatale e che nel testo originale di Testori era solo «un fantoccio, ritagliato in lamiera, d’un giovane pastore» (p. 7). A dire il vero, il personaggio si materializza più volte nel corso dello spettacolo. Egli ora appunto appare con il cesto, ora danza lascivamente e suscita il desiderio di Cleopatra, ora chiama la regina da un telefono di un albergo di lusso: edificio che lo spettatore vede dapprincipio sullo sfondo, attraverso un velo trasparente, ma che poi costituirà effettivamente l’ambiente in cui viene collocato il suicidio della regina. La materializzazione del «ragazzin» introduce un ulteriore elemento di complessità, ossia una strana mescolanza tra amore e morte che rende più intenso il gesto finale di Cleopatra. La morte si presenta alla regina come un abisso erotico, come l’ultimo orgasmo a cui ella si può abbandonare, prima di precipitare nel nulla. Lo stesso serpente che la morde è descritto con termini dalla forte connotazione sessuale: «d’un botto, / el verdissimo fogliame tutto se solleva» (p. 39), «dentro de me possa / del mortifero velen / far l’ultima cagata» (p. 58), «’mo ’desso il serpenton / tutto ripieno ’me un ballon / se mostra satollato» (p. 64).

Cleopatras-Anna Della Rosa © Tommaso Le Pera

Questo spunto di “eroticizzazione della morte” può essere letto in due modi. Da un lato, può essere un’interpretazione soggettiva di Cleopatra – un effetto del suo sguardo che sessualizza ogni cosa, anche la morte che la distrugge. Tale interpretazione potrebbe a sua volta venir letta come un altro suo tentativo di lasciare la vita, analogo al consumo di alcol sulla scena. Cleopatra cerca, in altri termini, di sessualizzare la morte per accoglierla come una dolce amante. Dall’altro lato, è lecito anche formulare un’interpretazione oggettiva. La morte è conquistata dal fascino di Cleopatra, per usare il linguaggio osceno della donna ha tirato il suo «augello» in erezione. Ella vuole fare quindi l’amore con lei. La morte avrebbe infatti potuto assumere mille forme, meno o per nulla sensuali. Avrebbe anche potuto togliere la vita a Cleopatra senza assumere vesti provocanti (= il «ragazzin») o le fattezze del coito (= il serpente che “eiacula” nel seno della donna il mortale veleno). La regia di Malosti si situa, a mio avviso, sul confine delle due interpretazioni, le fa convivere in una prospettiva per così dire “pansessualistica”. Cleopatra ama la morte, e la morte ama Cleopatra. Il lamento della regina si rivela così essere non un semplice sfogo contro una sorte infelice. È un canto insieme dolce e doloroso che mostra come Cleopatra vive fino in fondo anche il suo istante supremo, sa tramutare la distruzione in piacere.

Il trionfo della morte e il trionfo dell’amore dunque coincidono. Senza l’uno non potrebbe esserci l’altro, e viceversa. Se vorrai amare, dovrai morire: è il prezzo che pagano coloro – come appunto Cleopatra – che desiderano vivere intensamente nel breve lasso di tempo che separa nascita, copula e morte. Questo inno all’intensità è, forse, l’unica istanza moralistica in uno spettacolo che si tiene ben distante dal moralismo, dalla pretesa di insegnare qualcosa attraverso il dramma di passione. Se plausibile, si comprende anche che l’inferno di Cleopatra non è completamente infernale. Persino il peccato di lussuria ha qualcosa di sacro e paradisiaco, se è vero che riesce a rendere attraente e a far eccitare di noi la morte, a darle una fattezza tollerabile e amorevole.

Tali considerazioni valgono, ovviamente, solo se Cleopatràs e lo spettacolo di Malosti sono astratti dal progetto complessivo dei Tre Lai di Testori. Quest’ultimo considera il lamento di Cleopatra, infatti, come una sorta di preparazione alla sublimazione dell’eros con Maria di Nazareth, madre di un redentore che promette anche una resurrezione, dunque portatore di un amore che non si arresta nel coito con la morte. Lo dimostra il riferimento intertestuale che Mater Strangosciàs rivolge in modo esplicito alla regina lussuriosa (p. 170: «et anca ti, Cleopatrassa / suichida d’esser lassa / del potere»). La parabola di Cleopatra ha però una sua compiutezza interna che rende legittimo l’esperimento di Malosti, che può solo che proseguire in direzione di un ulteriore approfondimento e di uno scavo “sistemico” sulla trilogia di Testori. In assenza di questo lavoro più ampio, il regista e l’interprete Anna Della Rosa hanno comunque cesellato un piccolo diamante nero, in cui amore e morte si riflettono come in uno specchio.

Visto al Teatro Astra di Torino il 9 ottobre 2021

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