Cinema, Festival(s) — 18/12/2021 at 17:01

“La parte maledetta. Viaggio ai confini del teatro”. Impressioni di un comune spettatore

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RUMOR(S)CENA – Sfogliando il Dizionario delle opere filosofiche di Franco Volpi, il lettore potrà agilmente ripercorrere il pensiero di Georges Bataille (1897-1962). Gli tornerà non poco utile dal momento che i concetti fondanti di un suo scritto del ‘49 come pure il titolo, La parte maledetta, marchiano il recente esperimento audiovisivo “in tre movimenti” del Teatro Akropolis di Genova.

Sabato 18 dicembre al Teatro India (Lungotevere Vittorio Gassman 1) di Roma nell’ambito di Teatri di Vetro 15 dalle ore 21.30, saranno proiettate in occasione del festival diretto da Roberta Nicolai.

In quel “saggio di economia generale”, definizione dell’autore, Bataille sollevò l’attenzione su eventi e processi i quali, nell’ambito dell’economia borghese detta “dell’indigenza”, non trovano posto alcuno: riti funebri, accidenti, catastrofi, gli stessi conflitti bellici… tutte cose che hanno a che fare con la “mancanza” (defectio), l’assenza di “produttività”; parti dell’esistenza escluse o addirittura “maledette” dall’economia politica ma che, in realtà, costituirebbero la base primaria dell’umano consorzio. Ebbene, l’esperimento dell’inquieta fucina genovese si muove proprio nel su descritto interregno del mostruosamente “inutile”: lì viene trascinato lo spettatore, uscendone stupefatto e appena impaurito, piegato ma non spezzato, con fianchi e piedi chiazzati di lividi e gli occhi, di danzanti scotomi… ma appagato nelle viscere come di rado accade. Le annotazioni a seguire, anzi le impressioni, ora più precise ora più vaghe, riguardano i primi due “movimenti”. Per il terzo, gravitante attorno alle ricerche del filosofo Carlo Sini, preferiamo rimandare direttamente al suo libro L’uomo, la macchina, l’automa (Bollati Boringhieri; 2009) e consigliamo, inoltre, di integrarne la lettura con Lo specchio grottesco di Cristina Grazioli (Esedra; ‘99) e George e Maurice Sand sulle scene di Nohant di Elena Mazzoleni (Mimesis; 2017).

  1. Massimiliano Civica

Per il primo movimento, pur menzionando con affetto la “Lanterna Magica” di Ingmar Bergman, il regista reatino procede essenzialmente nel segno di Goethe, del saggio La metamorfosi delle piante (Versuch die Metamorphose der Pflanzen zu erklären; 1790), nonché dell’estetica delle ‘Wunderkammern’. Del primo sembra riprendere quella dolorosa coscienza secondo la quale lo studio della Natura, della Vita in ogni sua infinitesimale espressione, così com’è praticato dall’Uomo con i suoi esigui mezzi, ha in sé qualcosa di paradossale poiché trae conclusioni sulla Vita, sul Movimento, operando su qualcosa di “imbalsamato”, di “congelato”, comunque non più “vivo”. In altre parole, Egli specula sulla Vita attraverso il vetro opaco e sviante della Morte: nessun piacere o dispiacere, bellezza o bruttezza, soltanto la tensione – spesso frustrata o ripiegata su fugaci, insufficienti fenomeni – a “cercare di studiare, come indifferente e divino, ciò che è”. Quindi, se il Teatro vuole ancora essere tale, cioè un prodotto “vivo”, il più complesso fra gli aggregati antropologico-culturali, singolare e “irriproducibile” per ciascuna comunità d’origine, dovrà sottrarsi alla “formaldeide” (es. cronaca, filmato, taccuino, registrazione), alla tentazione romantica, mai sopita, del corpo defunto eppure ancora “attraente”, “desiderabile” come apparve a Montesquiou la salma della Contessa di Castiglione.

Da qui, forse, l’idea di far procedere la voce narrante, imperniata sui segreti della messa in scena, di pari passo con squarci della teriomorfica grazia dei “gabinetti delle curiosità” rinascimentali: di essa Massimiliano Civica se ne fa sensibile portavoce. Non solo. A fianco di Krokodyle di Bessoni, T.S. Spivet di Jeunet o degli ultimi La stanza delle meraviglie di Haynes e The French Dispatch di Anderson, il primo movimento de La parte maledetta ci fornisce l’ennesima prova del sotterraneo dialogo fra una certa filmografia del nuovo millennio e, appunto, le ‘Wunderkammern’ con la loro ridda di ‘carabattole’ animali o vegetali, sebbene la mestizia di fondo dell’opera sia affine piuttosto al corto L’ossario di Sedlec (‘70) di Švankmajer, impressionante, quasi intollerabile testimonianza di come la Bellezza possa fiorire da un giardino di resti umani.

Novello Faustus perso fra i propri fumanti alambicchi, il mastro tassidermista Enrico Borgo, attore suo malgrado, assembla resti d’altro genere: dopo averlo “salutato” ed esser passato di sghembo a palchi di cervo, inferriate e sgorbi in pietra, lo spettatore si imbatte in volpi volanti, garzette e invertebrati abissali; le gemme che illusoriamente si formano sul piumaggio d’un pavone cedono il posto a quelle autentiche di granato, e poi ancora a sferule di crisocolla, “cespugli” di quarzo ialino, “fortezze” di salgemma e “rupi” di pomice. Ma, di fatto, a cosa ha assistito? Che importa… è accaduto, ne ha goduto e forse l’ha perfino accettato. Questo è il limite e il prezzo dell’unione fra Rappresentazione e Mistero nel ferroso tempo presente. La fotografia (firmata a otto mani da Tafuri, Beronio, Donatiello e Romi), gravida di ombre alla Otto Marcellis van Schrieck, e la partitura musicale di Alessandro Cortini rendono possibile il breve “incontro”.

  1. Paola Bianchi

Piccolo, zoppicante esercizio “immaginale”: uno gnocco di luce si stende al buio catramoso. Forse un fulmine globulare o forse un feto che si dimena nello spettro ecografico. Una pantera, magari l’Irina di Cat people (’42), soffre in gabbia. L’Uomo tace, vince la Belva. Riaffiora l’estetica delle ‘Wunderkammern’… ma la natura, stavolta, è tutto fuorché morta. Nelle composizioni di spighe di grano e capsule secche di papavero, nelle bobine impolverate, nelle brocche che paiono uscite da una tela di Morandi, nelle maschere balinesi e negli stessi brandelli cadenti d’intonaco… c’è la vita. Tra le mura campestri di Paola Bianchi risuonano echi del cinema di Franco Piavoli (Al primo soffio di vento) e del lituano Šarūnas Bartas (il mediometraggio In memoria dei giorni passati). Nel suo corpo, nei suoi infiniti corpi, d’informità in informità, Il teatro delle marionette (1810) si fa pelle e bende calde. Come per il ballerino del racconto di von Kleist, tale signor C., ugualmente per la Nostra “[…] non sono le marionette ed i loro movimenti a seguire faticosamente l’eccelsa arte umana, ma il contrario. Il matematico susseguirsi di movimenti ondulatori e rettilinei dei fantocci di legno e dei fili tirati con forze differenti come manifestazione delle intrinseche possibilità della materia priva d’intenzionalità oltrepassa esteticamente quel gravoso lavorio d’adattamento di muscoli, tendini e mente, il padroneggiare cosciente del proprio corpo dei danzatori. […] Ne consegue che quanto più il danzatore, nella sua arte, si fa oggetto e si lascia trasportare dalle forze fisiche in sé e per sé, annullandosi, tanto più s’avvicina asintoticamente all’esecuzione perfetta, pur non potendo mai identificarsi totalmente con l’automa che dovrebbe essere.” (cit. G. Astone). Bambina che rifiuta la pastasciutta, Galatea che scende dal piedestallo, si mira tutta e si palpa, ma non si cura di alcun Pigmalione, Paola fa un cenno, si “riaccartoccia”… e scompare.

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