Recensioni — 17/11/2021 at 14:17

Tutto Shakespeare: 90 minuti d’intrattenimento pop arguto e divulgativo

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RUMOR(S)CENA – MILANO –Le opere complete di William Shakespeare in 90 minuti” è uno di quegli spettacoli davvero capaci di raggiungere il pubblico nella sua variegata totalità. Scritto da Adam Long, Daniel Singer e Jess Winfield, “The Complete Works of William Shakespeare (Abridged)” ha debuttato all’Edinburgh Festival Fringe del 1987 per poi venir replicato al Criterion Theatre di Londra per nove anni, diventando uno degli spettacoli più conosciuti al mondo.

In Italia approda solo nel 2013 nella versione di Gaspare e Zuzzurro, per la regia di Alessandro Benvenuti, che lo portano in scena fino al 2015… Ora lo si può vedere fino a domenica 21 novembre 2021, nella smagliante messa in scena de La Macchina del Suono, scoppiettante compagnia fiorentina, capace di restituircene tutta la vivacità fisica, allegorica, ironica e – perché no? – divulgativa, riuscendo a catturare fans e probabilmente anche detrattori del sempiterno Bardo.

È inevitabile, per chiunque si avvicini al teatro, incappare, prima o poi, in una qualche tragedia o, almeno, commedia shakespeariana; e, spesso, proprio da questo primissimo incontro ne deriva un imprinting indelebile. Ecco perché, accanto a lavori monumentali, che nulla lesinano nell’affondar la lama nel dramma tragico – per riaffiorarne catarticamente distrutti, sì, ma mondati -, si moltiplicano sempre più le versioni ironiche, giocose e “partecipative”. È un segno dei tempi.
In un mondo, che va alla velocità sincopata dei click, pare che il solo modo per distogliere il navigatore compulsivo dall’ipnosi da schermo sia catturarlo in una tridimensionalità talmente coinvolgente da fargli scordare la pur strabiliante piattezza del web. E, se questo era l’intento, decisamente bene ci riescono Fabrizio Checcacci, Roberto Andrioli e Lorenzo Degl’Innocenti, alias La Macchina del Suono, in questa coproduzione Khrora Teatro/Tieffe Teatro Milano al Teatro Menotti, in vena di aria di rinnovamento, da quando, salvato in extremis dal mecenate Filippo Perego, non ha più smesso di sfornare spettacoli, rassegne e iniziative a misura di pubblico.

foto di Marco Borrelli

In fondo, anche di questo, parla lo spettacolo della Bignami Shakespeare Company. Verve decisamente pop, ma che nulla sconta alla fedeltà al plot autorale, intento dichiarato è quello di contestualizzare, rendere contemporaneo e godibile, senza rinunciare a fulminee stilettate al cascame teatrale e a certi suoi topoi autoreferenziali. Luci in sala e chiacchiera aperta col pubblico: questo lo sfacciato incipit con cui il trio se la gioca fuori casa, strizzando dichiaratamente l’occhio ai beniamini locali – dai Lagnanesi al ben più trasversale Dario Fo, senza scordar, con l’occasione, la profonda scanzonata reverenza a Giorgio Strehler – in un crescendo, che, dal timido sorriso, monta fino agli scrosci di applausi: sentiti, autentici e divertiti.

Lo fanno col gioco del teatro nel teatro. Finezza per addetti ai lavori, che forse il pubblico non coglie, è quel sipario montato a centro palco; dai colori sbiaditi, favoleggia già di un’arte antica, che se potrebbe annoiare alcuni, di certo ci porta proprio lì: ai tempi del Bardo e, ancor prima, di quella commedia dell’arte dalla fisicità robusta e dalla battuta sagace e crassa. E loro? Sono incontenibili!

Come in una fantasmagorica Macchina del Suono, se ci è consentito giocar col nome della compagnia, ma anche macchina dell’immagine, della parola, dell’invenzione scenica, della boutade, del guizzo, dello scatto, del gesto performativo e di quel sacrosanto sberleffo, che non è mancato mai né al teatro popolare, né, tento meno, al lazzo di tusca tradizione, se ne inventano di tutti i colori per in-trattenere gli spettatori. Quasi fossero distratti avventori di passaggio, anziché compito pubblico pagante, non smettono un istante di solleticarli, ora con la risata, ora con lo scivolone circense, l’allusione, il ritmo, l’ininterrotto piroettare, la sottile satira o quel “Voi qui a Milano…”, che fa subito gigionesca captatio benevolenziae, contrapposto, com’è, al: “Siam mica a Poggibonsi…”.

foto di Marco Borrelli

Volteggiano, nei loro svolazzanti pantaloni alla zuava, giocando già con l’improbabile accostamento con vistose snikers, rivelatore fin da subito della loro voglia di sdrammatizzare. Svelano i trucchi (il pugnale giocattolo di Romeo e Giulietta si trasforma in un tormento esilarante), cavalcano gli equivoci (il Moro di Venezia si volge nel MoLo di Venezia), escogitano éscamotages (al secondo tentativo Otello si trasforma in un rapper del Bronx e la sua storia, raccontata a tre voci, in un trap con tanto di dab, coreografie e rumoristica alla “Yo!”, sparata nel microfono), condensano tutte le commedie di Shakespeare in un microbigino fatto quasi solo dell’elenco, sapientemente escogitato, di tutti i suoi titoli, e trasformano la saga dei drammi storici in una fulminea azione calcistica, in cui i falli si volgon in stilettate e oggetto del desiderio non è lo sferico pallone, ma la ben più solida e lucente corona regale. E, fra una burla e uno sberleffo, intanto le sentiamo risuonare, le reali parole di Shakespeare, accompagnate dal costante rovello (“Come fare a render attuale Shakespeare?”, “Come interessare a queste storie sempiterne, ma lontane 500 anni, il pubblico contemporaneo?”).

Ecco: ecco in che senso uno spettacolo capace di raggiungere il pubblico, trasversalmente, in tutte le sue stratificazioni. Se chi conosce già, sia pure per summi capiti, la produzione del Bardo, non può che apprezzare la godibilissima capacità di accorpare, sintetizzare, ironizzare, giocare e divertire, quasi pongo in mano a diavoletti arguti e irrispettosi, ci piace pensare che, invece, per chi non ne abbia ancor frequentato in modo assiduo le stanze, possa essere un tripudio di sollecitazioni, in grado d’incuriosirlo ad un approccio un po’ più strutturato. Quel che è certo è che, all’uscita dalla sala, le risate e il chiacchiericcio erano di quelli, che accompagnano a casa un pubblico soddisfatto e, a chi si aspettava anche un momento meno faceto, hanno saputo regalare pure un paio di passaggi dell’ Amleto dalla recitazione intensa, accademica e ben soppesata. Torna in mente la frase di Picasso: “Ho imparato a dipingere come Raffaello; adesso devo imparare a disegnare come un bambino” – qui a cerniera dell’asintotica sintesi fra tradizione e tradimento.

Visto al Teatro Menotti l’11 novembre 2021

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