Recensioni — 17/06/2017 at 11:15

Uniti dalla pazzia di un’amore che non ha mai fine

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PARMA – Un legame in cui i sentimenti sono espressione di un travagliato passato, incestuoso, in cui convive la passione, l’eros e la sofferenza. Poli opposti che si attraggono, si respingono, rifuggono per poi ricercarsi come possono essere solo le attrazioni fatali; la cui natura è spesso sinonimo di un malessere diffuso. La psiche umana elabora le proprie esperienze esistenziali senza un’apparente razionalità e coerenza. Così accade per un uomo e una donna prigionieri della loro stessa relazione che in passato li aveva visti coinvolti in un amore giustamente definito “torbido, passionale, doloroso” la cui genesi è un incesto che appare come un fantasma del passato che riemerge man mano che i protagonisti si devono confrontare con un padre la cui esistenza è segnata. Fool For Love è il dramma di Sam Shepard (scritto nel 1983), drammaturgo americano (premio Pulitzer 1979) la cui prolifica carriera autoriale tra le più importanti del teatro internazionale ha potuto contare anche su riferimenti autobiografici su sua stessa ammissione.

 

Un bambino cresciuto in un contesto famigliare disagiato il cui padre era alcolizzato è stato il terreno fertile per stimolare la creatività di Shepard nel produrre opere teatrali rappresentate in tutto il mondo. La Fondazione Teatro Due di Parma ha riproposto anche nella stagione 2016/17 la versione portata in scena da Fulvio Pepe allestita l’anno precedente. Scelta vincente nel riproporre un testo drammatico ricco di sfumature e rimandi dove aleggia sopra di tutto l’inquietudine di una relazione tra May (Linda Caridi) e Eddie (Raffaele Esposito) fratellastri per un padre in comune ma con due madri diverse. Un’infanzia infelice è l’eredità che li accompagnerà per tutta la vita. Un un’America anni ‘80 (Robert Altman ne realizzò una versione cinematografica nel 1985 con lo stesso Shepard nel ruolo di protagonista insieme a Kim Basinger), la vicenda è ambientata dentro un motel anonimo nel deserto ai confini con il Messico. Il regista Fulvio Pepe sceglie di creare un ambiente senza nessun preciso riferimento ben supportato dalla scenografia di Mario Fontanini. Un arredo minimalista per farne uno spazio quasi surreale in cui dare la massima rilevanza alle dinamiche tra i protagonisti che appaiono sulla scena come figure riemerse da un passato che si voleva cancellare. Il fondale è un cielo da cui si può accedere tramite un cancello di ferro: forse la via della salvezza per chi è prigioniero di se stesso.

 

Le azioni che si susseguono sono proiezioni a limite del fantasmatico, costrette a riemergere dall’oblio di chi voleva dimenticare per rifarsi una nuova vita. Lei, May che aspira a ricostruirsi un’identità con un uomo (Ivan Zerbinati), che appare incapace di avere un ruolo strutturato nella relazione per la sua stessa condizione di persona disorientata, impacciata (rasentando il comico involontario) e incapace di avere dei punti di riferimento. Stralunato e credibilissimo nel suo estraniante personaggio che fa da contraltare tra gli altri due dove l’attrazione e la repulsione li fa agire sempre nevroticamente.  Ogni azione, movimento, parola è dettata da quell’insana passione che li ha resi prigionieri come una sorta di punizione senza fine. Eddie è spinto da un desiderio di possederla e si impone con tutta la sua tracotanza anche fisica, resa con efficace presenza scenica e ruolo attorale da Raffaele Esposito.

 

 

Linda Caridi fa ben trasparire la sua doppia anima che nel suo continuo e nervoso gesticolare, aspira ad una sua indipendenza e autonomia ma allo stesso tempo è ostaggio di un’ossessione amorosa di cui non riesce a liberarsi. In mezzo a loro la presenza-assenza del padre bigamo e alcolista, un uomo nato per essere un perdente (Roberto Abbati) che il regista utilizza come una specie di “convitato di pietra” su cui converge la possibilità di capire cosa è accaduto. Il clima ansiogeno con guizzi di improvvisi scatti dettati dalle pulsioni, da quei moti dell’animo umano che fanno palpitare le emozioni anche quelle meno afferrabili ma presenti e determinate da una causa scatenante irreversibile. Non c’è una fine in Pazzo d’amore per l’impossibilità di uscire da quel legame contorto Un’ottima prova corale che restituisce allo spettatore il piacere di assistere ad un teatro che sa raccontare storie senza per questo necessariamente ricercare soluzioni estreme o dirompenti. Realizzato con gli occhi di oggi di chi sa dosare con moderazione senza mai eccedere mantenendo una fedeltà al testo originario ma al contempo rendendolo attuale e veritiero nella sua universalità.

 


di Sam Shepard
traduzione Stefania Casini e Francesca Marciano
regia di Fulvio Pepe
con Raffaele Esposito, Linda Caridi, Ivan Zerbinati, Roberto Abbati
regista assistente Carlo Orlando, spazio scenico di Mario Fontanini, luci di Luca Bronzo
produzione di Fondazione Teatro Due
Visto il 21 aprile 2017 al Teatro Due, Parma
Pazzo d’amore di Sam Shepard

(traduzione di S.Casini, F. Marciano, R.Bernascone) Costa & Nola editore 2006

 

Rapporti morbosi ne abbiamo?
“Non capisco come faccio a odiarti così, dopo tutto questo tempo, vorrei riuscire a non odiarti e invece ti odio ancora di più. L’odio cresce. Non posso neanche vederti, adesso l’unica cosa che vedo è una vostra fotografia. Tu e lei. Non so più se la fotografia è reale. E non me ne frega niente. E’ una fotografia finta. Mi ha invaso la testa. Voi due. E questa fotografia mi fa ancora più male che vederti davvero con lei. Mi ferisce. Mi ferisce così tanto che non ne guarirò più. Non riesco a liberarmi da questa immagine. Arriva da sola senza essere invitata. Una specie di tortura sottile. E ce l’ho con te più per questa tortura che per quello che mi hai fatto.”

 

Estratto video dello spettacolo

 

 

 

L’intervista al regista Fulvio Pepe

 

L’intervista agli attori

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