Cinema, Recensioni — 16/09/2020 at 07:52

“S’avess’io l’ale da volar su le nubi, più felice sarei, candida luna”. “Il grande passo” di Antonio Padovan

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Nel 1981 uscirono, per i tipi milanesi di Emme, le memorie di Riccardo Freda (1909-1999), dal titolo Divoratori di celluloide, nelle quali il burbero autore di Hadji Murát, il diavolo bianco (’59) spiegò senza reticenze la propria idea di spettacolo nonché la più dura avversione al realismo, principale, a suo dire, motivo di crisi della cinematografia italiana: “L’uomo quotidiano, non mi interessa per niente. […] Mi interessa invece l’eroe, l’esploratore spaziale, non il tipo che ha costruito la carlinga o il missile su cui l’esploratore viaggia. De Sica, all’epoca dei suoi trionfi, si sarebbe entusiasmato all’idea di mostrare un omino, un operaio, che dedica la vita a piantare dei chiodi nell’astronave che porterà Gagarin sulla luna… […] E un giorno finalmente la grande macchina parte, con grande gioia per lui che vi ha lavorato. Tutto questo non mi interessa, mi interessa seguire la splendida avventura dell’esploratore in un mondo unico” (pgg. 85, 86).

Perciò Il grande passo di Antonio Padovan, in sala dal 20 agosto, non sarebbe forse dispiaciuto a Freda: Dario Cavalieri, protagonista del film, non è solo un omino “alla De Sica”, l’anonimo fabbricante della navicella intorno alla quale ruota la storia ma è pure il “babbo” di questa specie di “Pinocchio” con fusoliera e propulsori; il suo zelante pilota, un puro, l’Eroe che oggigiorno, appunto, langue e, da quando portava i calzoncini corti, sogna di abbandonare il sudicio pianetino dove per caso nacque, senza appartenergli, guardando finalmente tutti dall’alto per ciò che sono, formichine felici solo di produrre e accumulare. Eroe “scomodo”, dunque, quello proposto da Padovan: classe ’85, una manciata di corti all’attivo (fra cui il fantascientifico Eveless e Il piccolo Girasole che s’innamorò della Luna) e un simpatico giallo intitolato Finché c’è prosecco c’è speranza, il regista veneziano dà prova, al secondo lungometraggio, di crescente sicurezza espressiva, raccontando una volta di più l’entroterra della sua regione.

Il grande passo (dietro le quinte). Crediti foto: pagina ufficiale della Tucker Film (Udine)

Venale e bigotto, il fittizio borgo di Quattro Tronchi (in realtà è Villanova Marchesana, in provincia di Rovigo) non vede di buon occhio chi vive d’intelletto o gli rammenti quanta innocenza abbia perso lungo la strada. Contro un simile “muro”, la testa di Dario (Giuseppe Battiston) si è infranta fin da piccino ma la sua immaginazione, schiettezza (spesso irritante) e talento scientifico, restano, vivaddio, intatti. I dileggi dei paesani, i rifiuti del mondo accademico non lo smuovono. Dario insegue uno scopo: raggiungere la Luna a bordo della suaccennata, artigianale cosmonave, faticosamente perfezionata per oltre trent’anni. L’ennesimo tentativo di lancio devasta però i campi del conte Bessegato (Andrea Appi) il quale, spalleggiato dal prefetto (Roberto Citran), invoca per il nostro lunare paladino il manicomio a vita. Animato dai migliori sentimenti, Mario (Stefano Fresi), commesso di ferramenta romano, raggiunge il fratellastro, con cui ha in comune il padre (Flavio Bucci): vorrebbe conoscerlo meglio e persuaderlo che l’internamento non potrà che giovargli. Sforzo vano. Le chimere e la cocciutaggine del pingue emulo di Buzz Aldrin finiscono per stregarlo, come già stregarono e commossero, ai tempi della scuola, l’amichetta Carlotta, ora infelicemente sposata con il conte…

Scritta da Marco Pettenello (Il comandante e la cicogna) e fotografata da Duccio Cimatti (già collaboratore di Pasquale Scimeca e Ivano De Matteo), Il grande passo è una fiaba per bimbi d’ogni età, esile nella sostanza ma genuina. Essa stessa è il tiro buffo e al contempo la confessione di un bimbo tenace, un animo pulito ancora in grado di distinguere la commozione dall’insensato stupore. Due anni dividono lo scrivente dal regista, comune è tuttavia l’immaginario. Pellicole quali Explorers (’85) di Joe Dante fanno velatamente capolino dalla messa in scena di Padovan – incompresi vogliosi d’avventura, rutilanti laboratori nascosti in seminterrati o vecchi fienili, mondi lontani che ci attendono appena varcata la soglia di casa – ma il discorso passa oltre: i “balocchi statunitensi” rimangono aldilà dell’Atlantico e, viceversa, con il tatto del Vecchio Continente, si sfiorano, seppur fugacemente, i temi della vittoria dello Spirito sulla Materia, della Bellezza sul cinico interesse, fino a risalire, a mano a mano, senza saperlo, alla sofferta durezza di Leopardi verso il mondo moderno e i mali universali degli uomini nonché alle “fantasie” italiane sulla Luna tra fine Ottocento ed inizio Novecento, non prive di stoccate rivolte a dotti e potenti dell’epoca, come certe opere di Guglielmo Folliero de Luna (1822-1871) o di Enrico Novelli detto ‘Yambo’ (1874-1943).

Oltre ai menzionati Fresi e Battiston, fra gli interpreti lasciano il segno Camilla Filippi nei grintosi panni di Carlotta e un mesto Flavio Bucci, qui all’ultima apparizione sul grande schermo. Per le lettrici e i lettori fatti della stessa pasta di Dario Cavalieri si consiglia, infine, la recente curatela La luna nell’immaginario (Odoya, 2019), in particolare, fra i quattordici saggi brevi che la compongono, Il contributo italiano alla fantascienza lunare di Gian Filippo Pizzo.

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