Culture — 16/02/2015 at 15:56

La testimonianza. Kitty Braun: “Sono viva per raccontare”

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CARMIGNANO – Nella giornata della memoria organizzata a Carmignano il 31 gennaio per il 70° anniversario della liberazione di Auschwitz, è intervenuta anche Kitty Braun, deportata fiorentina sopravvissuta ai campi di Ravensbrück e di Bergen Belsen in Germania, omaggiata dai ragazzi che hanno partecipato dal 2008 al viaggio della memoria. Deportata all’età di sette anni, la sua storia è carica di speranza e di perdono, nonostante un’infanzia a cui non furono fatti sconti.
Sono viva per raccontare”, conclude Kitty Braun, dopo aver parlato in mezzo ad una sala gremita di persone in un pomeriggio freddo e piovoso di gennaio. Quando inizia il suo racconto, intorno a lei cala un religioso silenzio, a interromperlo solo la pioggia che batte fuori incessantemente sul cemento. Il racconto di Kitty inizia, quasi paradossalmente, all’insegna dell’ironia.
Mi chiamo Kitty Braun e sono nata il 14 gennaio 1936 in una famiglia ebrea. Appena nata ho fatto il primo incontro con l’antisemitismo, Kitty infatti non è il nome che si legge sulla mia carta di identità e non poteva andare di moda nel regime fascista. Sempre a causa dell’antisemitismo mio padre perse il suo lavoro in banca, convinto che la persecuzione avesse come obiettivo le persone ricche, questo almeno finché non fu bruciata la sinagoga vicino a casa. Capimmo che era arrivato il momento di fuggire, ma come? Lasciammo la nonna, che era troppo vecchia per muoversi, in custodia alla cameriera Daniza e fuggimmo di notte dalla stazione di Trieste.

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Durante un regime in cui viene attuata discriminazione, l’obiettivo è privare la persona della sua identità, partendo da ciò che qualifica l’essere umano come tale, come il nome o il lavoro. Durante il Fascismo neppure il nome poteva essere un diritto, ma rientrava nella sfera per cui la vita di ogni uomo doveva prima di tutto rendere onore alla patria. Se la discriminazione diventava persecuzione, il regime minava allora la libertà della persona. Chi era perseguitato viveva in uno stato di continua incertezza, in un sistema in cui la calunnia era all’ordine del giorno, per cui chi ti riconosceva per strada poteva denunciarti e farti arrestare. Tuttavia la paura della persecuzione insegnava a riconoscere, per una inspiegabile affinità elettiva, le persone buone dalle persone cattive.

La prima casa in cui abitammo a Mestre era di proprietà di una signorina che odiava i bambini. Poi la mamma strinse amicizia al mercato con la moglie del farmacista, anche lui perseguitato armeno, che ci indicò una prima casa con giardino, che a noi bambini sembrava un palazzo e poi una famiglia di contadini che ci misero a disposizione il fienile. Per me e mio fratello abitare in campagna era una pacchia, bevevamo latte di mucca con cui spesso facevamo anche il burro e da mangiare avevamo polenta e ogni tanto una salsiccia che spettava al capofamiglia.
Nonostante i disagi e le difficoltà di adattarsi ad abitudini diverse dalle proprie, sofferenze queste di cui i bambini si rendevano poco conto, Kitty ricorda quel periodo con leggerezza e con la capacità, più unica che rara, di essere felice delle piccole cose. Tuttavia, neppure in campagna si poteva vivere tranquilli, contando sulla sicurezza di non essere trovati. L’11 novembre 1943 Kitty e la sua famiglia furono infatti catturati dai Tedeschi, accompagnati da un uomo di Fiume venuto per riconoscerli, e portati nel carcere di Santa Maria Maggiore a Venezia.

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La pietà l’ho vista solo in carcere. I detenuti erano impressionati dal fatto di vedere dei bambini imprigionati e ci regalavano dolci. Dopo venti giorni senza sapere dove ci stavano portando partimmo su un treno bestiame, che poi scoprimmo essere diretto a Ravensbrück. Durante il viaggio il treno si fermò a Gorizia e salirono delle partigiane. Una di loro diede alla mamma un uovo con zucchero in cambio di una medicina per il mal di testa e con quello la mamma preparò uno zabaione per festeggiare il mio compleanno.
Ravensbrück era un campo vicino a Berlino in muratura e con servizi igienici. La prigionia prevedeva un preciso rituale, che andava dalla doccia alla vestizione con abiti di cotone a strisce.
La famiglia di Kitty era stata divisa, il padre era in un’altra baracca, la madre di giorno andava ai lavori forzati mentre Kitty e il fratello restavano nella baracca, sotto lo stretto controllo delle kapove, deportate politiche russe o ungheresi messe a capo di una baracca.
Dormivamo in una baracca su dei letti con pagliericcio pieni di pidocchi. Per tutto il campo aleggiava l’odore nauseabondo della zuppa di rape che ci davano da mangiare e l’odore di carne bruciata che proveniva dai forni crematori. L’odore in questi casi è una delle sensazioni che resta maggiormente.
Dopo un po’ di tempo la famiglia fu trasferita a Bergen Belsen, altro campo costruito molto velocemente e senza servizi igienici. Le condizioni di vita erano peggiori e per ottenere razioni di cibo più abbondanti la madre di Kitty si era adattata a svolgere un secondo lavoro, che consisteva nel portare fuori dal campo i cadaveri, ridotti a scheletri.
A Bergen Belsen è morto mio fratello, di cui ho vivido il ricordo del pianto disperato un giorno in cui chiedeva della mamma. Mio fratello non ha mai avuto una sepoltura, la mamma lo nascose in un armadio per tornare a riprenderselo, ma quando lei e il babbo tornarono a Bergen Belsen a guerra finita, il corpo era scomparso.
Nel 1944 il campo fu liberato dagli Inglesi, che entrarono con occhi sbarrati per l’orrore che non credevano di trovare. I sopravvissuti furono lavati e trasportati in un ospedale e altri morirono per aver abusato del cibo dopo un lungo periodo di digiuno.
Il primo ricordo felice al termine della prigionia sono le lenzuola pulite del letto di ospedale, in cui ho dormito. Ancora oggi porto questo ricordo dentro di me, ancora oggi mi piace il contatto della pelle con le lenzuola, che profumano di bucato.
Nel viaggio di ritorno furono toccate diverse tappe, prima Treviso e poi Mestre prima dell’arrivo a Fiume. A Fiume la famiglia di Kitty venne a sapere che a sporgere denuncia nei loro confronti era stata la cameriera, che si occupava della nonna e che aveva bisogno di una casa in cui abitare.
A guerra finita la famiglia di Kitty si trasferì a Firenze, perché il padre aveva ottenuto il reintegro del posto di lavoro in banca nella sede di Prato.
Vivere a Firenze era bellissimo, ho frequentato le elementari in Piazza Santa Maria Novella e le medie vicino a Palazzo Pitti, dove ho studiato francese. Mi sono diplomata al liceo Galileo dove nel 1954 ho conosciuto il mio futuro marito, Gianfranco Falaschi, e mi sono laureata in lettere.
Kitty Braun è stata insegnante alla scuola Don Milani di Firenze. Dopo l’esperienza della deportazione non è più tornata ai campi in cui era stata internata, ma ha scelto la via della testimonianza per rendere pubblica una memoria che è molto più utile a chi la ascolta che a chi la rivive.
Ho avuto molto più di quello che ho sofferto – conclude Kitty – non ho mai creduto al caso. Mi ritengo una persona felice. Non sono più tornata in pellegrinaggio ai campi perché non sopporto il suono della lingua tedesca pronunciata dai Tedeschi. Ho scelto di raccontare agli altri la mia storia, per dare un nome a chi non ha potuto avere sepoltura. Se sono viva è per fare questo, per raccontare.

Giornata della memoria
31 gennaio 2015
Sala consiliare di Carmignano
organizzata dall’Assessorato alle Politiche Giovanili di Carmignano
in collaborazione con la Fondazione Museo della Deportazione e Resistenza di Prato

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