Culture — 15/01/2013 at 22:10

Quella nicchia chiamata teatro che l’Italia non vuole più

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E’ ormai palese che il Teatro e la società italiana camminano su due binari diversi. La considerazione amara che nasce di conseguenza, è che la società potrebbe avere ragione. Forse il Teatro, da qualche parte, si è fermato ed ha fallito. Chiudono i Teatri, le compagnie, qualcuno cambia lavoro. Ma questo è solamente colpa della politica? Perché veniamo sostenuti formalmente ma nella pratica a pochi interessa veramente cosa succede al “Teatro” non ritenendolo una priorità? Perché non ci sono interlocutori competenti con i quali i tanti movimenti di lavoratori dello spettacolo possano parlare? Perché siamo riusciti a perdere il diritto alla disoccupazione e le nostre rimostranze non si possono descrivere se non come i lamenti di un bambino capriccioso da rabbonire con accondiscendenza?

Perché il resto dei lavoratori italiani, il nostro pubblico, non ci ritiene a pari livello nella richiesta di dignità nelle regole lavorative? La risposta è duramente semplice: perché si pensa che non ce ne sia bisogno. La società come macro entità non ci ritiene utili o indispensabili e lentamente ci sposta negli angoli per poi espellerci o tollerarci. Nella teoria ideale è diverso, ma nella pratica quotidiana è così. Un esempio, oltre alla realtà delle condizioni lavorative sono gli eventi recenti riscontrabili in situazioni come il Teatro Valle occupato a Roma o Macao a Milano. Che si sia d’accordo o meno è evidente che del rumore lo hanno fatto, ma socialmente che cosa è successo? Niente. È diventato folclore. Nella struttura generale non succede niente. Non cambia niente. Diventano un simbolo magari, ben circoscritto però. Non sappiamo più nemmeno contro chi o cosa dobbiamo confrontarci.

E’ possibile che la colpa di questa grande crisi del teatro italiano sia solo della mancanza di soldi provenienti dallo stato? Possibile che il nostro lavoro, qualsiasi esso sia, non riesca a produrre reddito o prospettiva? Possibile che la mancanza di fondi sia la causa principale della mancanza di pubblico? Ci sono veramente così pochi talenti capaci di risvegliare la passione in un pubblico così lontano? Io non ci credo. Di spettacoli belli ce ne sono moltissimi. Di ricerca, di commedia dell’arte, di tradizione, perfomance, teatro civile, comico… Le proposte sono infinite, il problema è che non le si conosce. Un bello spettacolo è linfa per il Teatro, qualsiasi genere sia, il problema è la ricerca qualitativa. Se vedi uno spettacolo ben fatto, anche se non sei d’accordo ,sai che hai davanti professionisti. A livello politico sociale però tra spettacolo professionale e amatoriale non c’è più grande differenza. E’ questo lo considero uno dei motivi principali della disaffezione del pubblico. A volte, il potenziale spettatore, non sa nemmeno che può esistere qualcosa di diverso. Non è più abituato allo scambio, prima di tutto umano, che uno spettacolo “dal vivo”, ben fatto, può dare. La parola “ricerca” è diventata lo sberleffo del teatro, ha cambiato significato, se la usi il pubblico scappa pensando alla noia, non sapendo nemmeno cosa dovrebbe vedere.

Questo però è colpa nostra. Noi abbiamo fatto credere che chiunque può fare qualsiasi cosa nel nostro mondo per comodità o per sopravvivenza. Che tutto va bene. Che il pubblico deve adattarsi a qualsiasi esigenza creativa o temporale dell’artista, che bastava lo spirito creativo per essere “artisti” dello spettacolo livellando tutto, soprattuto la ricerca. Che l’Italia è indietro rispetto all’evoluzione dello spettacolo, non solo in Europa, a parte rari esempi, per altro in difficoltà, si può dire che è una certezza. E siamo considerati, nei fatti, così poco, che sempre più spesso, ci troviamo in luoghi adibiti a “Teatro” in cui fare “Teatro” è molto complicato per le condizioni di partenza. Va bene poter fare “Teatro” ovunque, ma se nei secoli qualche canone tecnico si è sviluppato un motivo ci sarà.

Possibile che la sedia e l’attore sia l’unico futuro sostenibile? Che una ricerca scenografica o illuminotecnica sensata possa esiste solo nella grandi produzioni o negli spazzi di partenza dovendosi poi banalizzare, come fossero elementi secondari in luoghi impreparati allo spettacolo? Credo che non si possa descrivere la situazione attuale senza prendere in considerazione tutto quello che riguarda il mondo del teatro, che non è solo spettacolo. Il grosso lavoro che viene fatto su tutto il territorio avviene attraverso tantissime scuole, seminari, laboratori, qualcuno più specifico, qualcuno con finalità più sociali, qualcuno addirittura con doti “curative”, alcune con l’unico motivo di vita legato alla sopravvivenza economica. Ma la pedagogia, non è meno importante e complessa della costruzione di uno spettacolo. Non basta appassionare. Se c’è un luogo dove possiamo fare cresce un pubblico diverso, al quale far capire che il nostro è un “lavoro” difficile e complesso, che non siamo animatori, ma formatori, artisti, persone che hanno dedicato la loro vita a questa ricerca, se riusciamo a riaprire un dialogo con le persone con le quali poterci confrontare alla pari, sarà proprio attraverso questi percorsi, fondamentali per la ristrutturazione sociale del territorio e del nostro mondo.

Ma per fare questo non possiamo più permetterci di fare insegnare amatori o chi no ama farlo. Non possiamo più permetterci di essere divisi all’interno, di svilire il nostro stesso lavoro con personalismi che ci hanno distrutti come categoria, rendendoci fragili e non riuscendo più a distinguere quello che è competizione per la crescita da quello che è una guerra tra poveri, chiusi in un IO gigantesco, in realtà costruite come isole in mezzo al mare, che ora chiedono aiuto e si stupiscono quando nessuno le risponde. Siamo stati tutti, io per primo che scrivo queste parole amare, i peggiori nemici di noi stessi. Non esiste un mercato dello spettacolo, valorizzazione delle diversità della ricerca, “Veri” gradini sociali. L’organizzazione, anche per i più bravi, è inventata giorno per giorno. Non ci sono regole, siamo persi in grandi ideali che non riescono a dialogare con le esigenze quotidiane. Raggiunto qualcosa lo teniamo stretto come fosse la fetta di una torta troppo piccola e che ormai è ammuffita. Dove sono gli stabili? Dove sono i grandi teatri dell’opera?

Oltre a difendere il loro contributo statale cosa stanno facendo per tutta la totalità della realtà Teatrale Italiana? Come stanno dialogando? Siamo divisi in classi: On, Off. Ma dove andiamo così? Un bello spettacolo, una bella iniziativa, si perde in questo marasma che viene da un passato che non ha nessuna intenzione di far affiorare un futuro diverso. Allora come uno dei tanti faccio un’appello, perché qualcosa cambi, perché andare via non serve, non lo trovo giusto. Non c’è una “mecca” del Teatro, ci siamo noi, che prima dobbiamo cambiare e poi “forse” potremo cambiare qualcosa.

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