Recensioni — 12/03/2018 at 21:58

The Quiet Volume” e il senso (etico) del dispositivo performativo

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MILANO – Un’operazione singolare, pur nel solco del segno dei tempi, “The Quiet Volume” dei britannici Art Hampton e Tim Etchells, fra gli eventi attraverso cui la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli intende divulgare e promuovere la propria mission. Da poco più di un anno nella futuristica sede di via Pasubio 5 a Milano, il centro polifunzionale si inerpica su cinque piani di sale e salette, che ospitano la libreria (al piano terra) con ampia zona ristoro/area co-working e poi su ancora fino alla teca dall’enorme vetrata, in cui si annicchia la panoramica sala di lettura. È proprio qui che ha avuto luogo la performance-riflessione sul senso di un’esperienza tanto quotidiana ed intima, quanto universalmente condivisa, qual è quella del leggere.

A chi si rivolge, un’esperienza come questa, che già sulla carta si pone a suo modo élitària?

Pensata per due sole persone alla volta (per una durata di ben 60 minuti), è stata programmata nei giorni infrasettimanali dal 7 al 9 marzo 2018, dalle 9.30 alle 17.30. L’occasione prossima sarà la seconda Fiera Internazionale dell’Editoria “Tempo di Libri” in collaborazione con Triennale Teatro dell’Arte e specificatamente all’interno del Festival FOG Triennale Milano Performing Arts. Nonostante la gratuità dell’evento, in una simile fascia oraria di certo non avrà potuto fruirne il vasto pubblico, al lavoro, a quell’ora; più verosimilmente studenti o a vario titolo “addetti ai lavori” già vicini a questo spazio e alle sue attività.

A questa prima perplessità di ordine strategico, se ne aggiungono un altro paio più legate alla strutturazione dell’evento. Nella presentazione si parla di “teatro interattivo” e di “gioco di ruoli fra performer e spettatore”, che quasi cozza con quel: “Una pratica solitaria di auto teatro”, che pure qui è giocato sotto forma di duplice pas de deux: col performer, per un verso, e, per un altro, col compagno di avventura. Ad analizzarle bene, poi, cosa significano queste espressioni, al di là della loro asciutta eppur meravigliosa rotondità barocca? Se è dagli anni ’60 che si è fatta avanti l’esigenza di fare del pubblico un soggetto non tanto attivo – questo lo è sempre stato… -, quanto inter-attivo e partecipativo nel senso performante del temine, gli ultimi sviluppi sembrano spingersi fino al paradosso di un ripiegamento suicida del teatro, che rinuncia o alla pluralità di un vasto pubblico o, addirittura, alla specificità medianica dell’attore, via via sublimato nell’esclusività di una voce quanto più possibile asettica.

 

 

Cosa significa, allora, “auto-Teatro”? Come tutte le parole costruite con questo suffisso, dice dell’involuzione centripeta di un movimento, che per sua natura sarebbe invece centrifugo ed inclusivo, in quanto dialettico e relazionale. Cos’è, infatti, il teatro, se non una reciproca modalità d’incontro/esibizione di sé all’altro-da-sé e del corrispettivo riconoscimento/attribuzione di senso da parte di quest’ultimo? Non rischia, invece, questo“Auto-Teatro”, di risolversi solo in una formula accattivante per designare un’esperienza, che, togliendo allo spettatore/interlocutore lo spazio e la libertà di volgere sguardo, pensiero e sentire verso una fruizione indipendente, di fatto lo blinda in una etero direzione univoca? E cos’offre in cambio?

Dai nostrani Collettivo Cinetico e Teatro del Lemming, agli internazionali Rimini Protokoll o Strasse, affiorano alla mente esperienze di teatro itinerante con attori-guide ancora fisiche, fino a questi format, in cui l’etero direzione si riduce a comandi vocali spesso suggeriti nell’intimità di una cuffia e condivisi con un numero più o meno variabile di co fruitori volontari e involontari passanti come in “The Quiet Volume”, dove i frequentatori della sala di lettura loro malgrado diventano parte del quadro.

 

Fatte salve tutte queste premesse, quel che resta è una performance che, nell’etero direzione di voci sussurrate – l’allusione è alla regola del “Fare silenzio” -, insinua – eccolo, forse, il senso effettivo del ridondante soffiare in cuffia – pensieri, riflessioni e azioni atti a svelare i lati più inediti dell’accadimento lettura; restando sul versante meneghino, come non ricordare che fu proprio Sant’ Ambrogio il primo a trasformare la lettura “ad alta voce”, fino ad allora imposta ai frati nei refettori per incanalarne i pensieri, in un fatto intimo e personale, finalmente regalando, così, ai confratelli un raro momento di intima libertà ed auto determinazione?

Passando attraverso l’esperienza diretta di una lettura imposta e ancor più artificiosamente e goffamente condivisa, qui siamo spinti a riflettere su quanto illusorio sia il silenzio in quel preteso tempio delle quiete acustica, dove tutti i micro rumori ambientali s’ingigantiscono nell’assenza di parole condivise; siamo accompagnati per mano a constatare la solo apparente condivisione di un medesimo spazio fisico, che ciascuno invece ingombra con la propria solipsistica esperienza e a prendere coscienza di quanto sia divenuta oramai incontrovertibile quella pratica, il cui apprendimento, da bambini, ci costò sforzi enormi e, probabilmente, non inferiori momenti di sfiducia. Già, ma cosa vuol dirci? Infondo ci parla dei rapporti fra vita e automazione e della possibilità di guardare con un altro sguardo situazioni e spazi normalmente adibiti ad un differente uso pubblico. Un ben modesto corto circuito, a fronte di una richiesta di abbandono così totalizzante: in fondo solo pensieri, a cui non pochi degli assidui frequentatori di spazi del genere sarà capitato di abbandonarsi negli inevitabili momenti morti delle lunghe e faticose giornate di studio.

 

Qui, invece, pare quasi che lo spetta(t)tore d’oggi, sia condannato a scontare l’illusoria moltiplicazione e sofisticazione di gadget e pretesi strumenti d’espressione e condivisione messi a sua disposizione, con quel surrettizio bisogno di intra-ttenimento – nel senso etimologico del termine -, che lungi dall’essere paritetico e scambievole consesso, sembra tornare a tutti quei dispositivi e trappole, con cui delle minoranze, non importa quanto illuminate o intellettuali, ciclicamente tornano ad arrogarsi il diritto di disporre dell’altro-da-sé, tanto peggio se per ben piccoli scopi.

Visto alla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli di Milano, venerdì 9 marzo 2018.

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