Recensioni — 10/02/2017 at 00:30

Due spettacoli differenti, un solo autore convincente: Massimo Sgorbani

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MILANO – Nella bulimica stagione teatrale di Milano, spesso definita come “capitale dello spettacolo dal vivo” e guardata come l’America a cui approdare (benché moltiplicare le opportunità significa anche moltiplicare i competitors… fino al parossismo), ormai si fa così: si studiano i fittissimi tamburini, si spulciano le programmazioni di sale, spazi anche minori (fino alla quasi perversione del “famolo ovunque”/“famolo strano”, allo spasmodico inseguimento di pubblici più o meno improbabili) – e finalmente si stacca il proprio biglietto di sola andata per la felicità, si spera. Così non solo i teatri maggiori moltiplicano le sale (e, di conseguenza, la programmazione e l’offerta), ma, con un po’ di abilità, riescono anche a farci infilare “doppiette” di visioni nella stessa serata e, alla domenica, con una buona dose di fortuna perfino “triplette”; complice lo sfasamento per cui non tutti i teatri obbediscono alla legge non scritta che recitava: “Alla domenica, a teatro si va soltanto di pomeriggio”. Altro fenomeno in ascesa, in questa abbuffata d’offerta dalle teniture fulminee e dalle dinamiche complusive, è che gli stessi spettacoli, replichino in teatri diversi e in periodi differenti.  “Hai perso ‘Donna non rieducabile’ al Carcano? Niente paura, lo ridanno all’Atir, in gennaio…” Succede pure che gli stessi autori, magari con spettacoli diversi, siano presenti in più sale contemporaneamente. Basta un po’ di applicazione, tempo a disposizione e una discreta dimestichezza con algoritmi e sistemi di calcolo delle probabilità e, se non tutto, si riesce comunque a fagocitare una generosa fetta dell’offerta teatrale milanese; ma, soprattutto, a saper ben guardare, si possono cogliere interessanti arrocchi di visione.

 

Lo Soffia il cielo di Massimo Sgorbani

Così proprio in questi giorni si offre l’interessante occasione di poter vedere in scena, in due spettacoli differenti, tre testi di Massimo Sgorbani, classe 1963, laureato in Filosofia presso l’Università degli Studi di Milano e diplomato in Drammaturgia alla Civica Scuola d’Arte Drammatica “Paolo Grassi”. Di questo autore colpiscono lo stile chirurgico e sferzante e le tematiche sempre in direzione ostinata e contraria, attenta a cogliere il contemporaneo o la grande storia (la trilogia “Innamorate dello spavento”, sulle tre figure femminili più vicine a Hitler), attraverso storie dichiaratamente individuali, ma dalla eco collettiva e capace di agguantare quanto di profondamento umano (e furioso e fragile) alberga in quel delirio pre-fasico e presocratico, che ciascuno di noi è a se stesso.

Lo soffia il cielo.Un atto d’amore”, in scena allo Spazio Avirex Tertulliano fino a domenica 12 febbraio, nasce dai due testi di Sgorbani Angelo della gravità” (Premio Speciale della Giuria Riccione 2001) e “Le cose sottili dell’aria” (“segnalazione di continuità” al Premio Riccione 2003). Qui le due partiture vengono plasmate dal tocco lieve e aggraziato del regista (in questo caso anche drammaturgo) Stefano Cordella. Ne vien fuori una riscrittura per contrappunti, a raccontare della solitudine quasi autistica di due figure fatalmente avvinte in un doppio legame, che sa già di Thanatos, oltre che di un Eros, forse sublimato. Ma se la madre-vedova (una Cinzia Spanò, che aggiunge al tecnicismo attorale consueto, dei momenti di una verità quasi disarmante) è l’effettiva protagonista de “Le cose sottili dell’aria”, Mirko, invece, non è quel figlio ossessionato da un’iconofagia che sfoga in atti di masturbazione compulsiva, bensì quell’ “Angelo della gravità”, la cui pulsione sessuale/bulimica/affettiva confonde i piani di realtà, idealità e aspirazione anche religiosa e per ciò stesso salvifica, almeno nelle intenzioni.

A interpretarlo, in modo garbato, ma proprio per questo convincente, è il giovane Francesco Errico, capace davvero di angelicare il “cicciobombo” costretto a nasconde la propria fragilità sotto una spessa coltre di adipe. La trama è, come sempre, in Sgorbani, disturbante; eppure è proprio questo, che impedisce allo spettatore di accoccolarsi in tiepide nicchie di cliché consolatori, costretto invece a sussultare, fin dal presagio di quell’atrocità, che già s’intuisce, ma a cui non si vuol credere, fintanto che non se ne sarà costretti. In scena solo un divano demodé eppure ancora incellofanato, retaggio di quella mentalità per cui “le cose buone di famiglia” andavano preservate ad ogni costo; e poi i due figuri: la madre-vedova, rabbiosa e sfranta, pragmatica e sospesa come un personaggio alla Carlotto, è in abiti da casa tanto sciatti quanto lo è la sua esistenza ormai senza più capo, né coda e il figlio, in una tuta sformata quanto il suo stesso corpo e la visione che ha di sé e del mondo. Tutto è sprofondato in una oscurità, che forse è quella dell’asfissia (o, forse, quella dell’invisibilità sociale e relazionale dei due), accesa solo da luci a pioggia, ora sull’uno ora sull’altra, in un dualismo binario impietoso, che stigmatizza, l’incomunicabilità del contemporaneo non solo ai tempi dei social.

Già, perché non si scosta di molto neppure la cifra di “Truman Capote. Questa cosa chiamata amore”, ultima fatica di Sgorbani, al debutto al Teatro Franco Parenti di Milano, il 7 febbraio e anch’esso in replica fino a domenica 12. Infatti, pur trattando di tematiche apparentemente lontane per coordinate spazio-temporali e diverse per mentalità, cultura e contesti socio economici, anche questo monologo punta dritto al cuore dell’umano, alle sue fragilità, agli eccessi come mascheramenti. In una cavalcata pantagruelica e solo apparentemente liberatoria, ci riaccompagna, a ritroso, dalla caduta all’irresistibile ascesa di uno dei personaggi leggendari del jet-set dell’America di quegli anni, ma solo per farci toccare con mano la miseria umana (ahi, troppo umana) di burattini, ciascuno a suo modo, impigliati nel perbenismo e schiantati da una fragilità costituzionale. Occhio della giduglia che ammalia e ipnotizza, rigorosamente in bianco e nero fu il “Party del Secolo”, come venne definito: un evento epocale che segnò il culmine e il declinio di questo fool, nella cui bocca Sgorbani mette considerazioni su diversità e omologazione, su politica, cultura, storia e costume, su accettazione, solitudine e autodistruzione, su paura e violenza, su bisogno di amore, necessità di accontentarsi e desiderio di sopraffazione.

 

Truman Capote

Lungi dal raccontarci di un baccanale da un carne-vale, la carne, qui, la ostenta come materia morta e mortifera, nonostante tutto, attraverso un linguaggio volutamente esplicito e provocatorio, pur nello sberleffo del fanciullino irriverente, ma giù smaliziato. La materia  assurge a pretesto, pudore e denuncia, in cui tutto quel modo volutamente prouderistico e provocatorio di parlare di sesso e sconcerie, serve solo per mostrare che la vera pornografia sta altrove. Lo fa con toni misurati, il docile Gianluca Ferrato, attentamente diretto da Emanuele Gamba, che gli tira i fili a cavallo fra il cliché del personaggio sopra le righe (quasi fosse questa, la sola collocazione consentita al “diverso”, nonché l’unica maschera possibile per chi avesse voluto farne “per-sona”) e le corde dolenti di una coscienza acuta e sofferente, pur sotto il cerone del clow. Lo fa sui toni e, ancora una volta, sul binomio, del bianco e del nero: giocando come si gioca con un candido frack, a immaginarlo tunica mortuaria dell’abito più glamour di tante serate mondane. E c’è “Il Grande Gatsby”, in quelle atmosfere scintillanti di dive e di paillettes… e, in filigrana, l’America di Carver, ma anche il racconatare asfitto e oramai senza senso, né quasi urgenza de “L’inferno sono gli altri” di Jean Paul Sartre.

 

Visti allo Spazio Avirex Tertulliano il 3 febbraio e al Teatro Franco Parenti di Milano il 7 febbraio 2017

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