Recensioni — 10/01/2018 at 19:03

Utøya”: quando il vero mostro si annida in una scheggia di specchio rotto

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MILANO – A tutti capitano momenti di sconforto e, anche in quelli di buona, è il logorio stesso della routine, che, spesso, ci fiacca forze, entusiasmo e motivazione. Allora cos’è che ci spinge ad andare avanti, nonostante tutto? Probabilmente le nostre certezze: il ricordarsi verso dove e perché; il richiamare alla mente da dove partimmo e qual era la direzione, quali i puntelli e gli obbiettivi, in cui forse, in un lontano giorno, credemmo di intravvedere una luce.
E cosa succede, se queste certezze si sbriciolano?

Ecco, in fondo è questo, il dramma raccontato in “Utøya” di Edoardo Erba con la consulenza di Luca Mariani già autore de ”Il silenzio sugli innocenti”. Fu la stessa regista Serena Sinigaglia a commissionargli un testo capace di tradurre in linguaggio per la scena quel “silenzio”, appunto, stagnante tutt’attorno alla strage di 69 adolescenti norvegesi, il 22 luglio 2011, nello storico campeggio dei giovani social democratici sull’isola di Utøya. E finalmente eccolo, lo spettacolo incluso nella stagione “On the road” del Teatro Atir Ringhiera (vedi https://www.rumorscena.com/27/10/2017/serena-sinigagliafilippo-del-corno-e-la-vicenda-ringhiera-quando-il-teatro-e-anche-presidio-di-confine), in scena al Teatro Filodrammatici di Milano dal 9 al 14 gennaio 2018.

Sorprendente: questo è il termine che affiora, di continuo e per vari aspetti, durante tutta la fruizione dello spettacolo. Sorprendente già quella scenografia fissa anche nella studiata staticità di un disegno luci, che non cambia, se non verso la fine, nonostante il continuo variare del passaggio del testimone del racconto fra le tre coppie; fatta da mozziconi di tronchi abbattuti, chissà che non sia già metafora di quelle vite spezzate, nonostante il vigore delle loro giovani età, e il cui essere ancora così saldamente piantati nel terreno non fa che esasperarne lo straziante ossimoro. E poi quella bruma, un po’ a suggestiva rievocazione dei paesaggi nordici, un po’, ancora una volta, simbolo a offuscare la lucentezza dello sguardo, costante aleggia su tutto e su tutti, anche in senso figurato. Già, perché quella che viene portata sul palco non è la costruzione diretta degli eventi; la narrazione, piuttosto, per interposta persona, in cui ciascuno diviene a suo modo testimone, sì, ma prima di tutto narratore, più che cronista, con tutto il precipitato di soggettività, emozionalità ed esperienza, che questo comporta. Sorprendente l’incipit, dove occorre qualche minuto per comprendere chi sia quel norvegese, che la protagonista femminile sta descrivendo; e sorprendente il finale, dove, a suo modo pacificatore, torna quello stesso norvegese, che invece lì era stato oggetto di stridente contesa.

 

Quasi che le stragi, ravvicinate e contro obbiettivi sensibili – oltre che carichi di una forte valenza connotativa, come, in questo primo squarcio di millennio, ci ha spesso tristemente abituati, il terrorismo islamico -, fossero solo un pretesto. Perché, lo ripetiamo, non sembrano importanti i fatti – per quello i giornali o la cronaca sarebbero risultati probabilmente più efficaci -, quanto le emozioni e come quelli, semmai, cortocircuitando con queste, non arrivino invece a svelarci quell’immagine di noi, che nessuno vorrebbe dover guardare riflessa nel proprio specchio.

 

Così, quasi a cornice delle stragi – di cui si parla, sì, ma come eco di voci rimbalzate dall’emotività di social, in cui ciascuno ha sempre un proprio aneddoto da legare e, spesso, da anteporre, al fatto stesso –, gli spaccati, in reiterata sequenza, di tre coppie. Sono un professore universitario tanto idealista, sul versante politico, quanto disincantato nel ménage familiare e l’apparentemente annoiata consorte, un’appassionata poliziotta e il suo arrogante e ligio responsabile diretto e una coppia di sprovveduti fratelli contadini, formata da una donna oramai adulta e stanca e dal suo ben più giovane fratello portatore di un ritardo mentale, sembrerebbe.

“Non m’interessa la riproduzione della realtà sulla scena. Al contrario, m’interessa difendere la scena dalla realtà”, scriveva Heiner Müller; questa lezione, sembra averla fatta propria lo stesso Erba, che, in filigrana al crucifìge, ci fa vedere dove si annidi il vero mostro e cosa succeda, quando il precipitare degli eventi fa traballare le nostre certezze. Succede che ci sorprenderemo, inermi, con le nostre fragilità ad annaspare per poter ancora continuare a credere al nostro tutto per bene; succede che forse ci scopriremo incuranti di quanti e quali saremo costretti a buttar giù dalla torre, pur di non dover essere noi stessi e le nostre certezze a fare il grande salto. O forse no; forse ci renderemo invece conto che nessuno si salva da solo e che è solo nella rinnovata idealità della solidarietà, che si annida la sola possibile umana salvezza. Di fatto efficacemente la regia di Serena Sinigaglia sceglie di raccontarci tutto questo attraverso la non facile opzione di un continuum in cui nell’apparente immutabilità e, al tempo stesso, straniante incongruenza dei segni, si passa dall’una all’altra all’altra ancora, di quelle lenti sul mondo che sono le tre coppie testimoniali con loro le storie e le relazioni, che, nel tempo, le hanno plasmate. Già, ma per permettersi uno swing così ardito, occorre poter disporre di strumenti eccellenti, che, certo, non le mancano. Sono davvero puntuali, Mattia Fabris e Arianna Scommegna – in lei, in più, attimi di una grazia, che le si legge negli occhi, nei brevissimi istanti, in cui, freezing o non freezing, scolora da un personaggio all’altro, immobilizzandosi quasi ricettacolo del soffio vitale di una nuova presenza – nello scivolare in personaggi tanto diversi, quanto credibili al di là di facili stereotipizzazioni (notevole, ad esempio mimica e prossemica del Fabris nell’impersonare il ragazzo disabile). Attenta, precisa e costante è anche la cura ad un apparato sonoro che, dall’ossessione del ticchettio quasi mai interrotto al pulsare del cuore, spezzato, questo, solo da trilli di telefonate significate attraverso sinistre modulazioni simil transistor, fino al liberarsi in arie dal respiro lirico e dal timbro struggente, aiutano a mantenere lo spettatore costantemente avvolto in un continuum amniotico, che dice che siamo – tutti! – della stessa sostanza (dei sogni).

Visto a Milano, Teatro Filodrammatici, il 9 gennaio 2018

 

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