Recensioni — 09/02/2018 at 01:05

La ferocia di un’irresistibile ascesa al potere nell’Ubu Re del Teatro dei Venti

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MODENA –Ubu Roi” è una pietra miliare non solo per la drammaturgia contemporanea; scritto da Alfred Jarry nel 1896, con la sua spiazzante mescolanza fra provocazione, assurdo, farsa, parodia e umorismo crasso viene considerato un’anticipazione del movimento surrealista e del teatro dell’assurdo. Ed è proprio su quest’opera che sceglie di lavorare il Coordinamento Teatro Carcere Emilia-Romagna. Fra gli esiti del progetto condiviso – del Coordinamento fanno parte, fra gli altri, Teatro Nucleo e Teatro del Pratello -, ecco questo “Ubu Re” di Teatro dei Venti. C’è una serie di problemi in ogni progetto di teatro sociale: un primo ordine riguarda l’evidente non professionalità di almeno parte degli attori. Se pensiamo ad Armando Punzo e al suo Laboratorio Teatrale nel Carcere di Volterra, abbiamo di fronte un pioniere, sì, ma anche un privilegiato quanto a continuità e tempi di costruzione degli spettacoli, che nel corso degli anni ha pur caparbiamente saputo conquistarsi. Non così Stefano Tè, che ha potuto disporre di pochi appuntamenti soltanto per mettere a punto l’intera struttura del suo “Ubu”.

Lari (“Collinarea” Festival), dal 26 al 30 luglio 2016, dove si è tenuto un laboratorio per attori, danzatori, performer e operatori socio-culturali ad affiancare attori/detenuti delle Case di Reclusione di Castelfranco Emilia e di Modena e attori del Teatro dei Venti; Dalmine (“In Necessità Virtù” Festival), alla fine di quello stesso anno, dove lo spettacolo ha iniziato ad acquisire una sua fisionomia grazie al costituirsi di una comunità teatralizzata secondo la metodologia oramai consolidata da Teatro dei Venti di far interagire detenuti e internati, attori e allievi attori della compagnia e gruppi di adolescenti provenienti dalle scuole dei territori attraversati. Poi di fatto solo un paio d’intensissime settimane di prova, a ridosso del debutto, lo scorso 7 dicembre in “Stanze di Teatro in Carcere”, per omogeneizzare il tutto; nel frattanto il lavoro era proseguito in modo separato coi due gruppi nelle rispettive strutture carcerarie.

foto di Chiara Ferrin

In questo “Ubu Re” felice intuizione di Stefano Tè è stata quella di non snaturare i detenuti nel vano tentativo di farne fini dicitori o attori finiti, ma di amplificarne la potenzialità espressiva, spingendo nella direzione di quella prossemica e di quel lavoro fisico già loro patrimonio acquisito. Così il testo è ridotto all’osso mentre ci sono, invece, azioni dall’espressività pulita e feroce – ostentata, ma mai enfatizzata -, eppure quasi eleganti nella composizione simbolicamente sofisticata e frutto di un attento e lungo studio, a restituirci l’insostenibile violenza delle relazioni fra i personaggi. Opta per una partitura fisica rigorosa e vigorosa e si avvale di quella ripetizione tenuta che, lungi dall’accompagnare il pubblico nella zona di comfort, lo spinge fino al limite massimo di sopportazione. Non è una visione accomodante: si resta impotenti di fronte a quel dilaniarsi senza redenzione e in fondo senza senso nel riecheggiare l’arendtiana “banalità del male”. Questa è la lettura che ne dà Stefano Tè: non c’è più grottesca ironia, né parodistica provocazione nell’irresistibile ascesa di questi coniugi Ubu; piuttosto una ferocia ininterrotta e insensata, che in nessun caso riesce a lasciar spazio neppure per un singolo istante alla pietà o al ripensamento. Nessuno escluso. Seduto su due spalti opposti, anche il pubblico visivamente si scopre in qualche modo correo della carneficina; così non sembra ingiustificato neppure l’ultimo nichilistico atto del giovane erede al trono miracolosamente scampato al massacro. Ricchissima di simbologie, questa messa in scena, che nella prima parte ci presenta una soluzione dalla solo apparentemente facile lettura.

foto di Chiara Ferrin

Le due piattaforme che si fronteggiano, unite e contrapposte da una passerella, non sono infatti equipollentemente dialettiche: qui l’ordine, la convenzione e il decoro del potere costituito accomoda sul trono due sovrani dagli abiti già accesi dello scarlatto che prefigura il loro destino; lì la coppia Madre e Padre Ubu, piccoli, quasi ferini e dall’abbigliamento in pelle nera rubato all’ostentazione di certi ceti malavitosi, siede accovacciata a terra quasi a nascondere la botola degli orrori, in cui sprofonderà gli avversari. La seconda parte smonta questo palcoscenico fatto dalle sole certezze di ferocia, vessazione e umiliazione in cui spesso i nobili vengono rappresentati come esseri meno che umani, che sgusciano, spettralmente e servilmente, da sotto la passerella, a mangiare, cani sottomessi, dalla mano di padron Ubu; e c’è tutto il godimento sadico di chi si sa dispensatore della vita o della morte per nessun’altra ragione che il capriccio dell’istante. Quel che resta, ora, è un’arena orrendamente vuota, che prontamente i due vanno colmando, strato dopo strato, costruendosi letteralmente la loro scalata al potere sul cadavere dei nemici. “Chi ti perdonerà per tutti questi atroci delitti?”, chiede a Padre Ubu, quella stessa moglie, che lo aveva spronato alla carneficina; e intanto dà l’avvio ad un’ipnotica abluzione seriale, un po’ rito funerario, ma che non a caso sceglie una quaresimale cenere, invece dell’acqua purificatrice, a mondare i corpi per il requiescat eterno. Pentimento eterno, dunque, e non pace.

Altro ordine di questioni, infatti, è quello riguardante l’impatto emotivo, che gioca subliminarmente.

 

 

Lo dicevamo: uno spettacolo come questo non ha nulla da invidiare al professionismo. Gli attori in scena giocano partiture fisiche dalla performatività impegnativa, ma con una fluidità e, al tempo stesso, con una densità drammatica tali da evocare, complici anche le luci capaci di disegnare un ambiente cupo e psicologicamente asfittico, certi quadri di Géricault. Elemento ancor più dirompente è sapere che nasce da laboratori con carcerati ed ex carcerati, alcuni dei quali sono lì in scena. Non importa chi o cosa, quel che non può far a meno di cortocircuitare è la costante consapevolezza che quelle teste strascinate per i capelli col piglio di Giuditta caravaggesca o imbavagliate e ostese, nella sua dissacrante ferocia, da una Madre Ubu dall’affinità Macbethiana impressionante, sono di uomini probabilmente poco avvezzi all’arrendevolezza: specie nei confronti di una donna. Fa pensare. Getta una luce incontenibile a proposito del discorso sul senso del teatro sociale nella costruzione della relazione tra Comunità provvisorie ma coese e cooperative come quelle di detenuti/internati, attori/allievi attori e adolescenti, nonché sulla trasmissione del sapere teatrale e sulla funzione educativa, auto-pedagogia e di cura delle relazioni umane e artistiche. Fanno pensare anche le scelte di Stefano Tè. Sembra un laico presepe vivente e ferocemente dolente a cielo aperto – in realtà lo spettacolo si svolge al chiuso, ma la sensazione da fossa dei leoni idealmente ci proietta in scenari lontani nello spazio e nel tempo -, dove il tappeto sonoro diventa parte integrante della scrittura drammaturgica, contribuendo, con la sua drammaticità e ossessività a loop a costruire quell’altrove straniato, in cui la violenza sembra essere sublimata nel gesto: performativo, disturbante e a suo modo estetico nella pulizia e densità di esecuzione e anti etico.

Visto a Modena, Teatro dei Segni, il 3 febbraio 2018.

Uno spettacolo del Teatro dei Venti a partire dall’opera di Alfred Jarry

Con Fonci Ahmetovic, Alessio Boni, Oksana Casolari, Fabio De Nardi, Diego Di Lascio, Francesca Figini, Davide Filippi, Lucio Improta, Daniele Novelli, Giuseppe Pacifico, M. Saieva, Antonio Santangelo, Sejfuli Nadir,

Felix Tehe Bly. Assistente di compagnia Ciro Risi

con la collaborazione di Marzia D’Angeli, Martina Giampietri, Elisa Vignolo.

Allestimento scenico Teatro dei Venti. Costumi Alessandra Faienza e Teatro dei Venti.

Sound designer Domenico Pizzulo. Assistente alla regia Simone Bevilacqua.

Regia e drammaturgia Stefano Tè.

Organizzazione Teatro dei Venti e Daphne Pasini.

Amministrazione Francesca Ferri. Comunicazione Salvatore Sofia.

Progetto realizzato in collaborazione con il Coordinamento Teatro Carcere Emilia-Romagna, la Casa Circondariale di Modena e la Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia. Produzione Teatro dei Venti con il sostegno della Regione Emilia-Romagna e con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena all’interno della Rassegna Andante. I Laboratori permanenti sono sostenuti dal Comune di Modena, dal Comune di Castelfranco Emilia e dal Coordinamento Teatro Carcere Emilia-Romagna.

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