Recensioni — 07/01/2020 at 13:12

Padri e figli alla ricerca di un dialogo mancato. Mario Perrotta indaga l’universo delle relazioni genitoriali

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RUMOR(S)CENA – IN NOME DEL PADRE – TSB – BOLZANO – La trilogia  riunisce “In nome del Padre della Madre dei Figli” un progetto drammaturgico di Mario Perrotta con la consulenza di Massimo Recalcati psicoanalista esperto di dinamiche famigliari. Un trittico capace di affrontare con un occhio attento la complessità delle figure genitoriali e i rapporti padre figli e madre figli. Perrotta è padre da cinque anni e sente la necessità di affrontare la paternità elaborando vissuti, emozioni, angosce, attese, traslando sulla scena tutto quanto può vivere un genitore. Interpreta tre padri che si alternano nelle loro condizioni ma diversi tra di loro. Si intersecano attraverso la voce dialogante capace di incrociare destini differenti, dove la narrazione prende corpo parola dopo parola in un affastellamento progressivo a tratti sincopato che racconta quanto sia difficile e impegnativo crescere un figlio. Mario Perrotta spiega bene quanto sia arduo il ruolo paterno: « I figli adolescenti sono gli interlocutori disconnessi di altrettanto dialoghi mancati, l’orizzonte comune dei padri che, a forza di sbattere i denti sullo stesso muro, si ritrovano nudi, con le labbra rotte, circondati dal silenzio. E forse proprio nel silenzio potranno trovare cittadinanza le ragioni dei figli». Parole che pesano e hanno un senso preciso anche per chi studia, analizza e cura i rapporti genitoriali come fa Massimo Recalcati: «Il nostro tempo è il tempo del tramonto dei padri. Ogni esercizio dell’autorità è vissuto con sospetto e bandito come sopruso ingiustificato. I padri smarriti si confondono coi figli: giocano gli stessi giochi, parlano lo stesso linguaggio, si vestono allo stesso modo. La differenza simbolica tra le generazioni collassa».

Il protagonista si cimenta in una prova d’attore in cui dipana tutte le sue abilità interpretative mescolando idiomi diversi, inflessioni dialettali, mentalità e caratteristiche diverse tra loro: padri come se ne incontrano ovunque, differenti per professione (un capoofficina metalmeccanico veneto, un commerciante napoletano e un giornalista siciliano intellettuale e letterato), accomunati da una sorta di incomunicabilità generazionale con i loro figli. In scena compaiono tre statue realizzate dall’attore (un valido artista e lo ricordiamo anche per i disegni realizzati in scena per la trilogia di Ligabue): rappresentano un Pensatore, un Galante morente e un Discobolo, a raffigurare simbolicamente i tre uomini: sono padri che si fanno conoscere per le loro debolezze ma anche per la volontà di cercare di cercare sanare un rapporto difficile da sempre, attraverso un dialogo con il proprio “personale confessore: ipotetico che sia poco importa” : lo psicoanalista a cui si rivolgono.

 

 

Le loro confessioni diventano l’asse portante della narrazione a cui siamo chiamati ad assistere quali testimoni privilegiati nell’ascoltare i loro sentimenti più intimi. La descrizione dei tre padri è realistica e molto circostanziata da cui si evince la proficua e fattiva collaborazione con Recalcati, tratteggiati con perizia a cui viene spontaneo provare empatia per le loro sconfitte. Ognuno a modo suo fallisce: il giornalista si arroca nel suo essere colto incapace di avere con il figlio un rapporto alla pari, mostrando altezzosità e la cecità di chi non vuole trasmettere affetto senza tarparne le ali. Al contrario l’operaio vive la frustrazione di sentirsi inferiore al figlio per la sua ignoranza nel parlare l’italiano. Ambiguo a dir poco il rapporto tra il padre napoletano e la figlia, la cui relazione è segnata da atteggiamenti morbosi che fanno sospettare che ci sia dell’altro.

L’assenza di madri significative lascia aperto un capitolo su cui Perrotta ha già pronto il prossimo lavoro al debutto nel 2020. Forse anche un modo per risvegliare troppe coscienze sopite di tanti adulti a cui manca il coraggio di affrontare seriamente il rapporto educativo con i figli, spesso lasciati in balia di se stessi. Oggi giorno è consueto incontrare minorenni dove il rapporto genitoriale e le regole educative indispensabili, vengono trascurate e sostituite da un agire senza limiti: l’uso della tecnologia come gli smarthpone, vero sostituti affettivi e ludici di un sano rapporto tra adulti e adolescenti. L’attore alterna le conversazioni dei tre padri con gli altrettanti figli più simili a soliloqui che veri e propri dialoghi, frammentati da chiamate alla segreteria telefonica dello psicoanalista. C’è tanto di vero in questo “In nome del padre” a cui seguiranno “della madre” e “dei figli”. Un progetto triennale dedicato alla famiglia. Lo smarrimento che si coglie appartiene a tutti noi, a quella ricerca di senso che solo un genitore conosce nel tentativo di parlare al cuore di un ragazzo o di una ragazza: il proprio erede e la possibilità di lasciare un segno della propria esistenza.

Visto nell’ambito della stagione del Teatro Stabile di Bolzano

 

foto di Luigi Burroni
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