Recensioni — 05/11/2022 at 11:50

Uno spettacolo più importante del suo provocatorio titolo

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RUMOR(S)CENA – MILANO – Si impone in via preliminare una doppia precisazione filologica sul titolo: L’appuntamento ovvero la storia di un cazzo ebreo. Intanto, solo nell’edizione americana del libro da cui lo spettacolo deriva (scritto in inglese dalla giovane autrice tedesca Katharina Volckmer), a quel “cock” era stato premesso “Jewish”. Inoltre è prassi consolidata (ancorché mai registrata nelle grammatiche e nei dizionari), che, in italiano l’aggettivo “ebreo” sia riservato alle persone (uno scrittore; un medico ebreo), mentre per le cose si usa “ebraico” (alfabeto ebraico; letteratura, lingua ebraica).

Marta Pizzigallo in L’appuntamento ossia la storia di un cazzo ebreo foto di Luca del Pia

Si potrebbe osservare che l’oggetto in questione, essendo in certe circostanze un’entità da considerarsi animata (e, in questo testo, quasi personalizzata), la scelta potrebbe avere una sua ragion d’essere. Certo, se si voleva provocare, “cazzo ebreo” è più immediato rispetto al più intellettualistico “cazzo ebraico”. Detto ciò, l’inquietante densità detrice del bestl testo, e la sua resa teatrale nell’adattamento di Fabio Cherstich in collaborazione con la stessa au seller da cui deriva, Katharina Volckmer; e nell’interpretazione di una sorprendente Marta Pizzigallo, al di là della strizzata d’occhio del titolo, rivelano una loro intrinseca e profonda carica provocatoria, che di per sé merita attenzione.

Fabio Cherstich foto di Noemi Ardesi

Lo spettacolo consiste nel lungo monologo di una donna – che sembrerebbe svilupparsi nel corso di una seduta psicanalitica, di fronte a un impassibile, silenzioso dottor Seligman (un cognome inequivocabilmente ebraico). Ma presto il pubblico si rende conto, a partire dall’improbabile abbigliamento di lei (una sorta di avvolgente guêpière, che la copre fino a mezza coscia, lasciando però libera un’ampia fessura all’inguine, che la situazione è diversa. La donna, in effetti, sta per sottoporsi a un delicato, impegnativo intervento chirurgico: l’impianto di un pene, che l’aiuti a ritrovare quell’orientamento sessuale nel quale il suo corpo di donna le impedisce di riconoscersi.

Marta Pizzigallo in L’appuntamento ossia la storia di un cazzo ebreo foto di Luca del Pia

Nell’attesa, si lascia andare a un torrenziale flusso di coscienza comunicando al suo medico le sue ossessioni sessuali e la sua complessa vita personale e familiare, come si trovasse davvero sul lettino di uno psicanalista. Ma queste confessioni private (oltre a spiritose osservazioni sulla pessima qualità della cucina tedesca) si intrecciano, quasi metaforicamente con le sue personali considerazioni sull’ambiguità del rapporto fra nazismo ed ebraismo, e sul fatto che il popolo tedesco non sia ancora riuscito a chiudere con onestà e serietà i suoi conti con la Shoah.

Fabio Cherstich e Katharina Volckmer foto di Noemi Ardesi

Solo verso il finale, prima che lo spettacolo termini con un buio repentino (quello che i teatranti chiamano “a coltello”) il dottor Seligman, alzatosi dalla sedia posta al margine del proscenio ove è rimasto seduto e immobile ad ascoltare in silenzio la donna, si infila i guanti per procedere – si direbbe – all’intervento che donerà a lei un membro maschile (cioè il cazzo – chissà perché – ebreo), e il sedile della donna si rivela un lettino ginecologico.

La brava Marta Pizzigallo, bloccata sul suo scomodo, polivalente sedile, sa arricchire questa difficile prestazione, sostanzialmente verbale, con un suo particolare, originale modo di porgere: con movimenti di tutto il corpo, sa integrare, modulare e accompagnare il suo torrenziale flusso di coscienza, sottolineandone ed esaltandone ogni concetto: non una semplice traduzione mimica della parola, ma un vigoroso, asciutto contrappunto plastico-figurativo, che sembrerebbe ispirarsi ai maestri dell’espressionismo tedesco: da Nolde, a Grosz, a Schiele.

Marta Pizzigallo in L’appuntamento ossia la storia di un cazzo ebreo foto di Luca del Pia

Ciò riscatta, almeno in parte, una regia sostanzialmente statica, che si avvale però del discreto ma suggestivo disegno luci di Oscar Frosio e della semplice, geometrica scenografia, sul cui fondo uno specchio rimanda, anche di spalle, l’esuberante, atletica figura della protagonista. Uno spettacolo che, malgrado un certo intellettualismo, cattura il pubblico per la densità degli spunti di riflessione, e di provocazioni più significative rispetto al discutibile goliardismo del titolo.

Visto alla sala AcomeA del teatro Parenti di Milano il 12 ottobre 2022

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