Recensioni — 05/03/2017 at 23:39

Il lavoro degli attori, il sudore e la fatica come “Bestie di scena” e le polemiche…

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MILANO – Al Piccolo Teatro Strehler  ha debuttato “Bestie di scena” di Emma Dante, prodotto dal Piccolo Teatro di Milano, Compagnia Sud Costa Occidentale, Teatro Biondo di Palermo e Festival d’Avignon. Lo spettacolo è già in atto: il pubblico entra in sala e gli attori sul palco si stanno allenando con esercizi di training autogeno. Corpi in sincronia. Ritmo, movimento, specchio, ascolto, fiducia, sequenze, azioni, corsa lenta, veloce e poi corpi liberi nello spazio. Lentamente la fatica inizia ad accelerare i battiti, a produrre vagiti, a contrarre i muscoli ed occupare la mente di 14 attori che creano un solo corpo prima di scomporsi in singoli entità che ora sul proscenio si svestono fino ad essere totalmente nudi.

©MasiarPasquali

 

In una conversazione con Natalia Aspesi, Emma Dante sulle reazioni al suo spettacolo afferma: «Chi si infastidirà se ne andrà» ma nessuno esce dalla sala. Il pubblico sa, ha la consapevolezza di cosa sta guardando. Chi non compie l’atto di distogliere lo sguardo da quei corpi “ignudi”, in realtà, forse anche inconsapevolmente, li sta accettando. Accetta il lavoro dell’attore prima ancora dei suoi organi. Viene mostrato il sudore dell’uomo – come vuole l’imposizione divina – di abiti bagnati e gettati sul palcoscenico prima di continuare a lavorare. È il lavoro dell’attore che diventa lavoro dell’uomo nel momento stesso in cui la mano registica, da dietro le quinte, lancia oggetti di uso quotidiano affinché gli attori vi agiscano. Una sola tanica d’acqua da cui bere, un solo telo bianco con cui coprirsi.

Attori tremanti e imbarazzati scappano allo scoppio di bombette liberate in aria, come in una scena di guerra. Si proteggono e protraggono mani in aiuto. Il dolore adesso è più forte di quella nudità fragile e restituisce immagini di uomini e donne spogliati e torturati che ricordano i campi di concentramento. “Un nudo realistico che diventa gesto artistico come nelle opere di Masaccio” – spiega Emma Dante – ma anche di De Goya, Botticelli, per citarne altri, nell’evocazione di eventi nefasti che impediscono agli attori di liberarsi da azioni imposte da qualcun altro, fuori dalle quinte, o anche solo da se stessi. Come la bambola meccanica buttata sul palco che cammina e parla al battito delle mani di qualche attore, e fa muovere allo stesso modo altri due attori, un uomo e una donna. La bambola è un elemento simbolico nelle regie di Emma Dante e rappresenta la donna senza identità, comandata dagli altri, dalla comunità che la circonda o anche da un’entità invisibile. «Le bestie di scena non fanno altro che immaginare.

 

©MasiarPasquali

S’illudono di vivere, tenendo tra le mani oggetti in prestito, nutrendosi di poltiglie, farfugliando brandelli di storie. Come i bambini, credono nei giochi e, alienati da tutto, se ne lasciano incantare fino agli eccessi della demenza». Non può sconvolgere la nudità nel momento in cui le azioni, interpretate da attori di notevole talento, diventano più significative e familiari della nudità stessa.

Verso la fine di questo “lavoro” cade la maschera attoriale, il gestus è citabile e indossa i panni della normalità. Un atto teatrale che diventa “atto rivoluzionario” di una comunità che, a fine spettacolo, sceglie di non vestirsi più, raggiunge il proscenio e con le mani lungo i fianchi guarda il pubblico, sicuro, privo di vincoli e di vergogna, dando le spalle a una montagna di abiti. «Bestie di scena ha assunto il suo vero significato nel momento in cui ho rinunciato al tema che avrei voluto trattare»: è un lavoro di ensemble del regista con gli attori che plasmano la messa in scena in un’ancestrale venuta al mondo di utopici esseri umani pronti ad ascoltare e comprendersi sul serio.

Datemi la carica come un giocattolo, fatemi cadere oltre il bordo del tavolino da caffè dove il cielo si butta in mare – verso l’ultima fine indicibile.

Charles Bukowski

 

 

Bestie di scena

ideato e diretto da Emma Dante

con Elena Borgogni, Sandro Maria Campagna, Viola Carinci, Italia Carroccio, Davide Celona, Sabino Civilleri, Alessandra Fazzino, Roberto Galbo, Carmine Maringola, Ivano Picciallo, Leonarda Saffi, Daniele Savarino, Stephanie Taillandier, Emilia Varginelli e con Gabriele Gugliara e Daniela Macaluso

elementi scenici Emma Dante

luci Cristian Zucaro

produzione Piccolo Teatro di Milano, Compagnia Sud Costa Occidentale, Teatro Biondo di Palermo e Festival d’Avignon

Visto al Piccolo Teatro Strehler di Milano il 2 marzo 2017

 


Teatro che critica il teatro. Riflessioni intorno ai giudizi di merito sullo spettacolo nell’era dei social network…

Il teatro può suscitare reazioni anche contrapposte, provocatorie, a volte “scandalose”, essendo lo specchio della società di cui fa parte integrante; senza dover essere accusato di instillare nelle coscienze, forme di propaganda che possano ledere valori, principi etici, sentimenti comuni e appartenenti alle individuali sensibilità. Un rischio che possiamo evitare (se mai accadesse) quando ognuno di noi ha il diritto di dissentire da uno spettacolo visto, considerato non riuscito o male realizzato, scarsamente artistico (per definire il valore artistico nel teatro contemporaneo, è comunque necessario indagare attraverso uno studio più  approfondito), oppure definirlo semplicemente un brutto spettacolo. Le categorie del Bello e del Brutto sono esteticamente contrapposte, l’una dall’altra  e sottoposte ad una ampia gamma di variabili soggettive. A margine della recensione di Flavia Altomonte, Rumorscena si è posto una serie di interrogativi a seguito delle polemiche apparse su un social network, suscitate dalla regia e dall’interpretazione di “Bestie di scena”, di Emma Dante, in scena al Piccolo Teatro di Milano. Quanto incidono sulla credibilità stessa del teatro? Possono avere delle conseguenze sull’affluenza degli spettatori a teatro? Rischiano di creare disorientamento nell’opinione pubblica per l’evidente conflittualità causata da commenti, giudizi, qualche  sterile accusa, a fronte di una “Lettera  a Emma Dante, diventando il pretesto per esprimere (in alcuni casi) anche uno sfaldamento della logica intellettuale, spesso sostituita da “sentenze” pregiudiziali in assenza di una visione personale dello spettacolo.

 

Emma Dante ©MasiarPasquali

 

Accade che a seguito di pubblicazioni e recensioni firmate (dove c’è chi giudica severamente l’esito della rappresentazione), si concentrino giudizi spesso sommari; nonostante la stessa ammissione di chi scrive sui social network, di non essere andato a teatro, e di non aver visto la tanto contestata regia. Cosa che ha determinato reazioni, anche scomposte ma ora, in questa sede, non ha importanza citare, quanto, invece, è necessario tentare di analizzare per fare un po’ di chiarezza. Lo strumento della critica è legittimato in presenza di una partecipazione attiva a teatro, di presa visione dell’azione sul palcoscenico, ma anche di un’esperienza pregressa capace di analizzare la carriera di un artista. Scrivere significa avere conoscenze approfondite di storia dello spettacolo. Recensire significa esporsi in prima persona come chi recita sul palco: gli attori e i registi. Prima ancora del giudizio critico, conta soprattutto il giudizio del pubblico, a nostro avviso primario e sempre rispettabile. Fin qui tutto nella norma. Le reazioni  sono da considerarsi giustificate e plausibili, quando invece diventa una sorta di schieramento fazioso, tra chi è sostenitore o fiancheggiatore (termine molto in voga oggi nel linguaggio teatrale) e chi, viceversa è ostile, denigrando o semplicemente pretendendo di giudicare senza essere stato a teatro, per aver letto giudizi altrui, visto forse le fotografie di scena, si crea qualcosa che a nostro avviso non torna. Non convince.

Il dubbio nasce perché uno spazio aperto senza limiti, come la Rete in generale e ancor più i social network, amplificano in totale (o quasi), anarchia, parole e pensieri, rischiando giudizi e commenti non esaustivi; declinando ragionamenti anche per luoghi comuni, basati su informazioni superficiali. Non si vuole difendere una posizione elitaria del gestire lo strumento della critica: resta sempre un diritto di tutti. Desta stupore però  come lo spettacolo di Emma Dante (il cui scrivente non l’ha visto ), venga  “bocciato” anche da parte di chi si limita a giudicarlo, senza  essere stato a teatro.  E in alcuni casi, per stessa ammissione di chi scrive sui propri profili: “Non andrò a vederlo”. Non è un obbligo andare a teatro (ognuno di noi fa delle libere scelte senza sentirsi costretto) ma è altrettanto grave scrivere su qualcosa che non si conosce, per non aver vissuto di persona quelle emozioni e reazioni suscitate solo dalla visione reale. Per ogni argomento di attualità, sia sociale che politico, di cronaca nera o di costume, sembra che ognuno possa giudicare a priori, senza  conoscere ed essere una persona informata dei fatti. Il teatro va visto e poi giudicato ma nel caso di “Bestie di scena”, sembra esserci un problema alla base, esplicitato dai commenti negativi: perché far recitare degli attori nudi, senza una drammaturgia esplicitata, accusati di essere “utilizzati” – a fini registici – “punitivi”, come operazione autoreferenziale. Il teatro oggi cosa deve rappresentare?

Un testo che abbia sempre un inizio e una fine, una storia consolatoria, una trama riconoscibile a prima vista? O si può anche non raccontarla e lasciare libertà di sentirsi coinvolti, reagendo attraverso differenti sentimenti provati; da pesare sulla bilancia di un ragionamento ponderato, equilibrato e saggiamente discusso nelle sedi proprie? Ognuno di noi lo può fare e con tutti gli strumenti di decodifica che possiede. Non tutto il teatro che vediamo è da considerarsi utile per un accrescimento culturale, anzi. Esistono parametri estetici e analitici per dividere la qualità artistica da un livello più scadente e possono essere gestiti con la giusta parsimonia. La polemica, se trascende diventa un pretesto che concorre a creare solo clamore mediatico, confonde chi soprattutto non è un “addetto ai lavori” e suscita perplessità, confondendo la libertà artistica con la licenza di trasgredire a prescindere. Appare strano questo atto d’accusa, in un’epoca dove la televisione è riuscita a sdoganare ogni forma di intrattenimento, senza più il rispetto di regole e limiti, anche rispetto alla decenza e alla morale comune, aggredendo per aumentare l’audience.

 

Se il teatro fa discutere, siamo convinti che questo sia uno degli scopi principali a cui viene chiamato; superato un modo di fare teatro convenzionale, spesso di scarso livello e talvolta tradizionalista, con la messa in scena dei grandi classici, spesso allestiti con superficialità e scarsa conoscenza drammaturgica dell’autore prescelto, tra l’altro evitando di uscire da confini prestabiliti, e infine, troppo sicuri per ottenere un facile gradimento. Oggi appare difficile formare una visione diversa capace di rompere schemi consolidati e in alcuni casi obsoleti, Per molto tempo il pubblico è andato a teatro, convinto di avere visto il Teatro quello con la T maiuscola. Forse anche per molti artisti che oggi si dichiarano scettici per questo nuovo genere di rappresentazioni. Gli artisti e i critici di professione dovrebbero essere i primi a sostenere una seria ricerca, la volontà di sperimentazione, il superamento di condizionamenti morali e culturali (se vogliamo chiamarli cosi), incapaci di leggere oltre alle apparenze, scegliendo di contrastare il pericolo, visto il presente storico, segnato da una deriva che vorrebbe la censura contro la libertà d’espressione, al fine di sostenere il teatro e le sue molteplici modalità di espressione. Non a priori, non visto come obbligo (le riserve vanno dichiarate anzi declinate), quando resta sempre valido il diritto di esprimere il proprio parere anche se il teatro va sempre difeso da chi cerca di contrastarlo con tutti i mezzi.

Censurarlo come sta accadendo per altri spettacoli attualmente in scena, è quanto di più grave possa accadere in una società civile. Quando poi il teatro contesta il teatro stesso: la frase può apparire riduttiva e banale ma il problema è molto più serio; l’intento è quello di suscitare delle riflessioni senza per questo rischiare di essere fraintesi. Un comparto professionale le cui criticità non mancano, siano di natura artistica che economiche, aggravate da una scarsa considerazione a livello politico nazionale, è un dato di fatto. Riportare le legittime opinioni al netto di una retorica scontata nel considerare la professionalità altrui, in un contesto più oggettivo possibile (i sentimenti umani spingono anche su leve emozionali estranee all’analisi), al fine di dimostrare all’esterno (la pubblica opinione, i lettori, gli spettatori, e chiunque non appartenga alle maestranze artistiche), che il teatro si assume le proprie responsabilità e non deve sottrarsi ad essere messo in discussione. In un’intervista rilasciata al Fatto Quotidiano, Emma Dante si dichiara come una: “ … privilegiata, in un momento storico in cui non ci sono tanti privilegi e non c’è grandissimo sostegno per gli artisti emergenti. Quando ho cominciato io c’era un’attenzione molto più grande e soprattutto c’era una libertà nel prendersi dei rischi. Oggi questa cosa io non la sento. C’è una grande paura. E siccome l’innovazione ha a che fare col fallimento, l’artista che innova è quello che fallisce; è quello che fallimento dopo fallimento trova il linguaggio nuovo. E l’eventualità che ad un artista venga data questa possibilità ora è molto precaria”.

Quanti sono gli artisti giovani che debuttano sulla scena rischiano poi di fallire o per lo meno di vedersi pregiudicare un proseguo della carriera, se non in rari casi, a causa di un mancato riconoscimento del lavoro svolto ma ancora tutto in divenire. Per chi assiste a molti spettacoli, è frequente notare come i giovani registi e i loro attori facciano molta fatica ad esprimere una poetica artistica capace di consolidarsi nel tempo. Per mancanza di tempo oggettivo, a volte anche per un evidente disinteresse, alcuni non vanno a teatro per assistere alle recite di un’altra compagnia, preferendo concentrarsi, quasi esclusivamente sul proprio lavoro. Rischiare significa anche confrontarsi con l’altrui, osservando e assimilando esperienze maturate negli anni, scegliendo poi di conservare ciò che si ritiene utile per implementare e arricchire quanto di più si possa creare facendo teatro, o viceversa, scartare nel caso non si percepisca una similitudine con le proprie convinzioni. Andare a teatro è quello che conta, sia solo per semplice passione o per frequentazione professionale. Vederlo per capirlo. Non stando davanti ad un computer compulsando solo pensieri che rimbalzano come una partita di ping pong.

R.R.

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