Recensioni — 02/08/2022 at 13:04

La solitudine del tempo

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RUMOR(S)CENA – CASTELMAGGIORE (Bologna) – Interpretare la Storia alla luce del Mito, ovvero interpretare la vita elaborandola attraverso l’immaginazione è una modalità estetica di grande immediatezza per conferire, all’una e all’altra, un senso (parola poliforme e camaleontica che unisce l’andare verso ed il sentire con) ed un significato altrimenti sfuggente che, come acqua, scivola tra le dita della mano che vorrebbe, anche per un attimo, afferrarla.

Del resto è scritto in un frammento attribuito ad Eraclito: <<chi sta nel sonno opera e collabora a quanto dentro il cosmo si dispiega>>.

MACONDO, il titolo di questa interessante lettura/spettacolo, è il villaggio di Cent’anni di Solitudine ed è dunque il mondo, in metafora e anche oltre la metafora. In esso l’umanità del mito e dell’eternità si incarna nella Storia e nel Tempo, a significarli entrambi con la propria verità.

Una verità transeunte, come la vita che viviamo, ma che è la sola capace di intercettare e rilanciare i frammenti di divino e di eterno che in quello stesso suo essere di passaggio riflettono qualcosa che è oltre e che fa umano l’umano, anche oltre se stesso.

In un certo senso è una rivelazione, non religiosa, che ben rappresenta ciò che l’Associazione “Tra un atto e l’altro”, fondata da Angela Malfitano e Francesca Mazza, che ogni anno promuove l’evento “Tutto il mondo è teatro”, cerca di significare nella sua prassi estetica: agganciare nella contingenza della scena un riflesso del Tempo, quello che scorre da un prima che non sappiamo a un dopo che non vedremo se non, appunto, ‘immaginandolo‘.

Tutto il mondo è Teatro è un progetto che vede l’incontro di un gruppo di attori i quali, in una residenza di un paio di settimane, affronta, in un certo senso esteticamente digerendolo, un testo, drammaturgico o narrativo a seconda della suggestione, per poi costruirne il transito scenico attraverso il quale quella elaborazione sia condivisa e, nella condivisione, possa diventare parte di una comunità che vuole conoscersi o, meglio, ri-conoscersi.

La scelta quest’anno è caduta sul romanzo di Gabriel Garcia Màrquez, fluviale e centenario (il secolo è l’unità di tempo che più di ogni altra suggerisce al nostro sentire profondo la ‘eternità’), rivisitato in due atti e ricostruito in felice azione drammaturgica in cui la parola si svincola dall’atto della lettura, solipsistico per sua natura, per farsi nell’attore corpo in scena, per articolarsi cioè in una sintassi di concrete materialità fisiche e sonore che si scontrano con se stesse, e con un pubblico che fa da argine e corretto confine a quella improvvisa corrente che percorre il virtuale palcoscenico.

Un agire che ricorda Edoardo Sanguineti, il quale aveva profondamente elaborato come l’atto scenico non sia altro, in fondo, che per mettere in vita e in corpo concreto la parola per poterla condividere.

Le vicende di Macondo e della famiglia Buendia, che credo sia superfluo qui ricordare, entrano dunque nel cerchio predisposto per e dalla comunità che lo attende, e nel parco suggestivo di Villa Salina Malpighi che ne è cornice, mostrano le ferite prodotte dall’illusorio e tragico tentativo di fermare la slavina che prima o poi tutto porta via.

Un cerchio concreto, fatto di sedie e leggii, ma anche un cerchio estetico in cui attori/narratori e pubblico/comunità sono compartecipi come di una cerimonia che riesce a trasformare quella contingenza della vita, quel suo essere transeunte, in uno sguardo sul persistente e sull’irriducibile dell’umanità che in quel rito, il rito del teatro, tenta di guardare dentro il tempo e di transitare paradossalmente oltre.

In effetti la parola, rispetto a quando è letta in solitudine come nel romanzo o nella poesia, a teatro si trasfigura nella sonorità della voce che la recita, intercettando e dando concreta figura alla immaginazione che, diversa in ciascuno di noi, suscita ma che anche, restando in ciascuno di noi, tende a sfumare fino a presto dissolversi.

E così, paradosso inaspettato, proprio il dissolversi di Macondo e di quella comunità nella tragedia di una morte rimandata per un secolo e di cui le formiche che rapiscono l’ultimo bambino della famiglia sono l’icastica raffigurazione, è l’immagine e la suggestione che ha la più grande forza di permanenza.

Sorta di drammaturgia condivisa, in cui la sensibilità attoriale, che ne arricchisce le suggestioni sceniche, ha indubbia prevalenza, è uno spettacolo efficace e profondo, che non vuole ‘spiegare‘ la creazione di Màrquez, ed il suo “realismo magico” ma semplicemente farcene singolarmente partecipi.

La prova di ogni interprete è infatti un apporto singolare di creatività che ben si amalgama al transito scenico che recupera ogni giusta coerenza.

A Villa Salina Malpighi di Castel Maggiore (BO) il 30 luglio (seconda parte).

MACONDO un omaggio a Gabriel Garcìa Márquez. Con Maurizio Cardillo, Fabrizio Croci, Oscar De Summa, Angela Malfitano, Elena Natucci, Gino Paccagnella, Tita Ruggeri. Sonorità Francesco Brini, luci Paolo Falasca, collaborazione drammaturgica Mario Giorgi, coordinamento e cura Claudia Manfredi, grafica Alberto Sarti, docufilm Teo Rinaldi.

Una produzione “Tra un atto e l’altro”, nell’ambito di “Tutto il mondo è teatro”, con il sostegno di Regione Emilia Romagna, Unione Reno Galliera, Città di Castel Maggiore.

Fa parte di Bologna Estate 2022, il cartellone di attività promosso e coordinato dal Comune di Bologna e dalla Città Metropolitana di Bologna – Territorio Turistico Bologna-Modena.

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