Recensioni — 02/07/2022 at 11:58

The Lingering Now, osmosi tra cinema e teatro

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RUMOR(S)CENA – VENEZIA – Sono immagini di un incontro conviviale quelle che scorrono sullo schermo all’inizio di The Lingering Now, lo spettacolo di Christiane Jatahy che ha aperto, il 24 giugno, il 50esimo Festival Internazionale del Teatro alla Biennale di Venezia – secondo pannello del dittico Our Odyssey che ha esordito nel 2017 con Itaca –. Da quel momento di serenità e condivisione a cui assistiamo come spettatori attraverso il video prende però il via una narrazione di dolore e di lacerazioni esistenziali profonde. Si fa così tangibile il Rot, il Rosso del titolo scelto per il secondo anno di direzione artistica del Festival da Ricci/Forte, a richiamare qualcosa che lascia il segno, fino al vivo del sangue.

foto-dello-spettacolo-The-Lingering-Now-©-Christophe-Raynaud-de-Lage.jpg

Nella chiave che le è consueta, tra cinema e teatro, la regista argentina, insignita quest’anno del Leone d’oro alla carriera, si accosta con sensibilità maieutica all’universo dei migranti raccogliendone le testimonianze autentiche e traducendole in linguaggio artistico. Con grande perizia tecnica Christiane Jatahy crea un’osmosi tra cinema e teatro, affiancando le riprese filmiche all’hic et nunc della rappresentazione attraverso il corpo degli attori che, visti sullo schermo, si fanno carne in mezzo agli spettatori e li rendono parte attiva della performance anche attraverso uno scatenato ballo di gruppo, vitalistico e liberatorio. La dinamica che si crea è quella propria della tragedia greca dove il Coro, che rappresenta la polis, è partecipe delle vicende degli eroi e interagisce con loro con uno scambio emotivo e concettuale profondo.

The Lingering Now © Christophe Raynaud de Lage

In “The Lingering Now” gli attori non fingono, non danno vita a personaggi fittizi: sono loro stessi i veri protagonisti delle storie che raccontano, storie di separazioni, lontananze, persecuzioni. Le riprese fatte nei campi profughi in Palestina, Libia, Grecia, Sudafrica e in Amazzonia denunciano violenze prodotte da razzismo, maschilismo, fascismo, i cui esiti sono distruzione e inenarrabili sofferenze, fughe di esseri umani lontani dalle proprie terre e migrazioni in paesi stranieri. E poi la mancanza lancinante delle proprie radici e il desiderio di tornare alla propria terra, costi quel che costi. Tutto questo rappresentato senza retorica, con accenti di verità che ti arrivano al cuore. Non è cronaca, ma poesia, quella stessa che sta alla base dell’Odissea omerica, il testo di riferimento della regista, che propone brani delle peregrinazioni dell’eroe greco Odisseo in una sorta di tessitura tra passato e presente, tra il mito nato nella notte dei tempi, ma specchio sempre dell’uomo nel suo vivere, e l’oggi.

Visto il 24 giugno al Teatro alle Tese, Arsenale di Venezia

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