Recensioni — 01/07/2022 at 11:41

Una coraggiosa proposta alternativa per un classico čechoviano

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RUMOR(S)CENA – MILANO – Per nostra fortuna, Čechov non è ancora stato coinvolto nel ridicolo ostracismo che rischia di colpire in modo acritico e irrazionale la cultura e la letteratura russa, a seguito della sciagurata aggressione perpetrata da Putin in Ucraina, e la ripresa della vita teatrale dopo la forzata pausa cui ci ha obbligato il Covid19, ha registrato una certa fortuna dell’opera di Anton Pavlovič. Le dinamiche psicologiche che muovono i suoi personaggi, come per ogni autentico classico, hanno una validità che supera il tempo e lo spazio; trascendono il momento storico cui le ha collocate, e in quei meccanismi ci riconosciamo senza sforzo.

Ma non è sempre facile, per il regista, trovare una modalità, una ragion sufficiente per tornare a mettere in scena i testi čechoviani. Le modalità che hanno caratterizzato certi allestimenti, che pure appartengono ormai alla storia del teatro (la mia generazione ricorda il fascinoso, iperrealistico ciliegio fiorito di Visconti, del 1965), non sono più praticabili; forse neppure la pereživanie di Stanislavskij, che ha conferito a Čechov una notorietà internazionale, sarebbe oggi proponibile. Peraltro, certe messinscene dei classici sembrano spesso dettate da una coazione ossessiva a fare del nuovo, dello strano, più che dal desiderio di uno scavo di valori non immediatamente leggibili.

Woody Neri in primo piano e alle sue spalle Stefanie Bruckner foto Luca Del Pia

Ben venga allora l’intelligente edizione dello Zio Vanja di Elsinor – Centro di Produzione Teatrale e del Teatro Metastasio di Prato, affidata alla regia e alla drammaturgia di Simona Gonella e agli attori che l’hanno accompagnata nella sua esplorazione: un’operazione a un tempo filologica e ardita; un’avventura, ai limiti del temerario, resa possibile non solo per la profonda conoscenza e l’amoroso rispetto per l’autore dimostrati da Simona, ma anche dalla sua possibilità di attingere all’originale russo. Nel programma si legge che “la drammaturgia accoglie alcune delle note di regia che Stanislavskij, più di cento anni fa, scrisse a margine del suo storico allestimento dell’opera”: una dichiarazione che, a priori, poteva suonare anche un po’ sconcertante, essendo noto il disaccordo di Čechov per alcune soluzioni registiche di Stanislavskij.

Marco Cacciola e Stefanie Bruckner foto Luca Del Pia

La regia si astiene tuttavia dal prendere posizione su questo confronto dialettico, ma gioca in modo originale sulle didascalie, riportate da un personaggio estraneo all’azione scenica: una minuziosità realistica che contrasta con una scenografia priva di qualsiasi appiglio naturalistico, o addirittura contraddice ciò che appare allo spettatore. Una modalità stilistica ed espressiva volutamente spiazzante, che ricorda forse la poetica del Nouveau roman. Tutta l’azione (due ore senza intervallo) si svolge quindi in uno spazio disadorno, astratto, colorato di rosso: solo alcuni sedili; una sorta di samovar fissato alla parete di fondo; una poltrona girevole (tipo bottega da barbiere), sulla quale rimarrà seduto per quasi tutto il tempo il Professore (un efficace Stefano Braschi).

Ma le invenzioni registiche e drammaturgiche non si fermano qui. Maman e la vecchia tata (testimoni di un passato illusoriamente felice) sono interpretate da Anna Coppola, che passa senza difficoltà da un ruolo all’altro con minime variazioni del vestiario. È lei, inoltre, a restituire al pubblico, come una sorta di alieno personaggio coro, le didascalie di Stanislavskij. Per sottolineare l’estraneità di Elena, la cui presenza fascinosa e perturbatrice ha scosso la pacifica monotonia di un mondo statico, incistato nella sua noiosa ripetitività, la regia affida il suo personaggio a un’attrice straniera, la tedesca Stefanie Brukner, che si esprime in un italiano stentato (di suo, non lo parla affatto). E ancora: il brutto, fedele Telegin appare una sorta di grottesco demente che non suona la chitarra, ma armeggia su un marchingegno che porta a tracolla. Lo interpreta Donato Paternoster, che è anche l’autore degli effetti sonori (musiche, uccellini, rumori campestri), che lui sesso gestisce scopertamente in scena mediante il detto marchingegno elettronico.

Dopo un possibile, iniziale momento di smarrimento, questa complessa operazione di smontaggio e ricomposizione drammaturgica, ardita ma coerente, cattura lo spettatore, e le battute del testo čechoviano, rigorosamente rispettate, lungi dal tradirlo, in questa grottesca rivisitazione dai tratti e dai colori esasperati e violenti, quasi espressionistica, esaltano la ferocia dei rapporti umani ad esse sottese. Una lettura drammaturgica e registica coraggiosa, cui dà plausibilità anche la splendida squadra di attori. Nessuno, in scena, è interpellato con l’ostico cognome russo, come per accorciare la distanza, anche geografica della vicenda, dal nostro presente. Oltre ai già citati, il dottore di Marco Cacciola e Vanja di Woody Neri, impegnati nel duello amoroso per la conquista della bella Elena; fino a una Sonja, in stivali di gomma gialli da lavoro, che trasforma inaspettatamente la sommessa, religiosa perorazione finale in una sorta di violenta invettiva che, anche qui, rovescia provocatoriamente la prospettiva di una lettura consolidata.

Il successo riscosso da una proposta certo non tradizionale, ma suggestiva e degna di rispetto e attenzione, ha indotto il Teatro Fontana a inserire nuovamente il lavoro nella prossima stagione: un’occasione per rivederlo (o vederlo) e discuterlo.

Woody Neri e Stefanie Bruckner foto di Luca Del Pia

Visto il 16 giugno 2022 al Teatro Fontana di Milano

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