Recensioni — 01/02/2018 at 00:16

Cosa ci insegna oggi Ibsen nel suo “Rosmersholm”?

di
Share

MILANO – Non è un’operazione neutra la scelta registica, come non lo è quella dell’allestimento scenografico e di costumi, luci e tappeto sonoro. Può sembrare un’ovvietà, eppure ci sono spettacoli che ce lo ricordano con maggior urgenza. Questo è il caso del “Rosmersholm” di Henrik Ibsen portato in scena da Federica Fracassi e Luca Micheletti, quest’ultimo pure alla regia, al Teatro Franco Parenti di Milano dal 23 gennaio all’11 febbraio 2018.

Non è un’operazione neutra, perché stralciare e poi ricucire un dramma in quattro atti, riducendolo alla forma compressa di un monodramma – un atto unico, tiratissimo, di soli 70 minuti -, inevitabilmente significa porsi nei panni di un demiurgo, intento a giochi per plasmare la materia originaria secondo un suo disegno. È proprio questo che colpisce e non smette di ronzare in testa per tutto il tempo della rappresentazione: qual è l’esigenza di mettere scena un testo del genere – e di farlo così, con quest’allestimento, che va a scardinare l’impianto logistico della sala che lo ospita? Non è rimasto nulla del salotto buono e dell’ariosa dimora in cui era stato ambientata la pièce da Ibsen inventore del moderno dramma borghese. Dove, le grandi finestre, con cui si apriva il primo atto e attraverso le quali Rebekka (Federica Fracassi) e la domestica indugiavano sul rientro del padrone di casa – occasione per seguirne i movimenti sul ponte, mettendo al corrente il pubblico della disgrazia? In questo “Rosmersholm. Il gioco della confessione”, invece, veniamo accolti nello spazio tetro di una camera ardente: due tavoli di legno massiccio a sorreggere i cadaveri, composti, dei due protagonisti e altrettanti lumi a olio a rischiararne i visi. Tutt’attorno il disordine di quel che resta di quel salotto ottocentesco con sedie in barocco veneziano disposte alla rinfusa e candelabri posati direttamente sul pavimento, che profuma già della terra del camposanto; tutt’attorno, e a un tiro di schioppo, le poltroncine porpora, su cui è seduto il pubblico, e da cui, con esplicita metafora, a tratti reciteranno anche i due attori.
Nulla di tutto questo è ciò che ci sconvolge o scandalizza.

LEGGI ANCHE...  Il delitto Matteotti rievocato da Ottavia Piccolo e i Solisti dell’Orchestra Multietnica

 

 

Micheletti – Fracassi – Rosmersholm – foto Distefano

Ma certo fa riflettere capire il perché di una scelta del genere. Con un rigurgito dell’acqua del lago, in cui, ce lo diranno poi, si sono annegati entrambi e con lo scalpitio di cavalli – quei cavalli bianchi metafora degli spettri (celeberrimo testo di Ibsen) di quei morti che sono a lungo attaccati a Rosmersholm […], quasi si direbbe ch’essi non sappiano staccarsi dai superstiti – si risvegliano, il Pastore Rosmer (Luca Micheletti)  e Rebekka West, dando il via al loro duello d’anime. Quello che risulta evidente fin da subito è l’ambivalenza del rapporto fra i due. Come in un minuetto gotico – o forse, meglio, una tragica schermaglia amorosa –, continuamente si avvicinano e si allontanano, quasi attratti e respinti da un elastico invisibile o da una celata polarità alternata. Si cercano e si protendono, ma senza mai davvero toccarsi, per poi tornare ad allontanarsi, ma senza davvero lasciarsi mai. È la danza dell’attrazione negata: e, a poco a poco, si svelano. Intanto ci raccontano la storia della tragica morte di Beata, moglie suicida, di cui fin da subito si mette in dubbio l’infermità mentale.

In un’atmosfera da gabinetto del Dottor Freud – non a caso Rebecca West divenne prototipo del senso si colpa correlato al complesso d’Edipo al femminile, nelle dissertazioni freudiane -, a poco a poco s’insinua il dubbio che, a spingere Beata nella gora del mulino, sarebbe stata non la sua malferma salute mentale ossessionata dalla candida amicizia fra il marito e la governante, ma l’aver indovinato quell’indicibile sotteso, taciuto a sé dagli stessi amanti. Inizia qui, la vera materia del contendere. Il duello reale, che, da solidali, a poco a poco li trasforma in opposti, è metafora dello scontro fra le due anime di una cultura ancora pesantemente segnata da una doppia eredità: la libera istintiva espansione pagana della vita e la sua disciplina sotto il rigido freno del dovere cristiano. Eppure, in questa ibseniana scacchiera, il bianco e il nero si confondono in un susseguirsi di ribaltamenti, che il regista felicemente esplode sia nelle scene del doppio recitato – le stesse ammissioni di colpa vengono recitate a loop da entrambi contemporaneamente, sortendo un gioco di amplificazione e sovrapposizioni dallo straniante effetto pirandelliano – sia in quelle del doppio ribaltato, nel momento clou in cui sembra che finalmente si perfezioni la presa di coscienza del maschile in Rosero – quando finalmente si fa virile, anche se virile, qui, sembra significare solo prepotente e delirante – e del femminile in Rebecca, in quanto sublimato il suo pur dissimulato eccesso passionale, sembra acquietarsi in un amore devozionale sottomesso e arrendevole.

LEGGI ANCHE...  La teatralità apocalittica di Maguy Marin e le Cerimonie notturne di Ismael Mouraky a MilanOltre

 

Micheletti – Fracassi – Rosmersholm -foto . Di Stefano

Nel mezzo tutta una serie di tesi e antitesi: e il bisogno costruire uomini nuovi e donne nuove, capaci di un’amicizia pura – sa di Nietzsche tutto questo e risuona già di quella fallimentarietà, che, anche in quel caso, la vicenda con Andrée Luo Salomé ben insegna; è la gioia che nobilita la vita come sostiene Rosmer, Pastore apostata e pescatore di uomini contenti, ma poi forse no, a nobilitarla è il dolore, come arriva a concludere Rebecca oramai pronta a riscattare col dolore il peso di quella colpa – di quella reale, che, in questo adattamento, si preferisce nemmeno menzionare.

Già, ma cosa hanno da dire a noi, uomini del ventunesimo secolo, discorsi così? Cosa ce li rende urgenti e vicini; cosa evita che tutto ciò non si esaurisca solo in una pagina di archeo – drammaturgia? La scelta formale è quella della scomposizione, sì, ma poi anche di una messa in scena che sceglie modi e mode ottocenteschi – i costumi, la recitazione, gli struggimenti -, che certo non ci avvicinano a tematiche anche culturalmente a noi così poco affini. Certo è accattivante quella continua inversione di ruoli maschio/femmina: questa sì vicina alla nostra sensibilità contemporanea, in cui il gender è teoria ampiamente dibattuta; felice, poi, alcune scelte come un uso ardito dell’illuminazione e di quei colori freddi – il verde, il blu – emessi dai led sotto le poltrone a gettare sinistri riflessi sui volti di questi due spettri.

 

Pure quell’atmosfera simil Lynch, capace, finalmente, di far sentire un po’ a casa. Per il resto, forse un’operazione ancora un po’ ardita – nei tagli, che, spesso, peccando di estrema sintesi, non hanno consentito, ad esempio, di cogliere fino in fondo il risvolto freudiano della natura machbettiana di Rebecca; nella scelta di un materiale così filosoficamente e culturalmente lontano e complesso -, che rischia di arrivare come un ben confezionato feuilletton gotico. Sì, ma poi? Forse la conclamata bravura degli attori non basta a giustificarne l’impresa.

LEGGI ANCHE...  Quelle vite dai destini incrociati, Glaube, Geld, Krieg und Liebe di Robert Lepage

Visto al teatro Franco Parenti di Milano, mercoledì 30 gennaio 2018.

 

LETTURE CONSIGLIATE

 

In Rosmersholm tutto l’amore deve morire Ibsen e Federica Fracassi

In Rosmersholm “tutto l’amore deve morire”. Ibsen e Federica Fracassi

Share

Comments are closed.